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Il ponte delle spie di Steven Spielberg

L'avvocato James Donovan viene incaricato di recarsi a Berlino per trattare lo scambio di una spia sovietica arrestata dalla Cia, che ha difeso in tribunale, con un pilota americano caduto in territorio russo.
Nel dizionario, tra i vari significati del termine convenzionale troviamo: “Che segue passivamente una consuetudine, una maniera comunemente accettata, quindi artificioso, privo di originalità e naturalezza”. Se una tale definizione viene applicata a un'opera artistica, subito si penserà a un giudizio negativo. Ma non è necessariamente così. L'essere convenzionale può diventare un pregio quando tutti s'affannano a cercare un modo per risultare anticonvenzionali. E, in ogni caso, non ci sogneremmo mai di esprimere un qualsivoglia pensiero critico nei confronti di un cineasta come Steven Spielberg, attivo da più di quarant'anni, giunto al ventottesimo film (e mezzo) dietro la macchina da presa (senza contare quelli realizzati per la televisione e le numerose produzioni): siamo dell'idea che di fronte a una carriera tanto lunga e articolata, e di questo livello, si debba sospendere ogni eventuale giudizio qualitativo e limitarsi allo studio ponderato e approfondito di un così vasto materiale. Oltretutto siamo in presenza di uno dei pochi registi, è giusto sottolinearlo, nati artisticamente negli anni Settanta che riesca ancora a girare con una certa continuità (insieme a Eastwood, Woody Allen, il rinato Malick e pochi altri). Colpisce a tal proposito il fatto che Il ponte delle spie sia uscito in Italia in contemporanea con Star Wars - Il risveglio della forza, prodotto da George Lucas (da sempre amico e in alcuni casi partner produttivo di Spielberg), il quale invece sembra sempre più intenzionato a defilarsi. Tornando a monte, ciò che è convenzionale non è per forza di cose negativo. Ma, una volta fatte le debite distinzioni (e, ribadiamo, il fondamentale confronto con tutto ciò che è altrettanto artificialmente “anticonvenzionale”), va oggettivamente riconosciuto. Per certo Spielberg, e per Il ponte delle spie in particolare, viene in mente una frase di Godard, che si riferiva al cinema americano in generale (e probabilmente proprio a Spielberg in particolare): “Laggiù non si vola alto, ma si vola bene”. Perché è evidente che se usi gli effetti digitali per rendere più realistici (più suadenti?) gli ambienti, i costumi, i volti di un'epoca passata (quella che hai scelto di raccontare preferendola al presente, che sarebbe stato realistico di per sé), non stai volando alto (si confronti l'uso che degli effetti visivi fa, tanto per dire, Sokurov in Francofonia). Così come se scegli, nel 2015, di inquadrare qualcuno che cammina in una pozzanghera per aprire una scena o se usi la metafora di una palizzata scavalcata da un gruppo di ragazzi (simbolo di libertà nei rassicuranti States?), osservata dal protagonista che ricorda dei berlinesi mitragliati mentre cercavano di oltrepassare il Muro. Di questo e altro si può trovare traccia in Il ponte delle spie (militari sovietici tratteggiati come i nazisti di Schindler's List, sguardi accusatori di cittadini americani anticomunisti, cene familiari, relazioni sentimentali nella città divisa). La cosa non stupisce affatto. Spielberg ha sempre lavorato su una base narrativa convenzionale (in alcuni casi l'ha creata proprio lui nella prima metà - la migliore - della carriera), su simbologie elementari, su dicotomie del tutto prive di possibili interpretazioni ambigue, su meccanismi ripetuti, sull'iperrealismo della messinscena. Sin dall'inizio, sin da Duel. E in vari casi il lavoro su stereotipi, figure metalinguistiche, accumulazioni, eccetera, ha finito per dare vita a capolavori di raffinata intelligenza come Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo e I predatori dell'arca perduta. Nulla di male quindi se ora vive di rendita, lavorando di fino su ciò che alla maggior parte dei comuni (registi) mortali sembrerebbe abusato. Insomma, in conclusione: Spielberg non vola alto, ma vola bene.
     
a cura di Roberto Frini