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Driver l'imprendibile di Walter Hill

Detto anche Cowboy, Driver (l’Autista) è il miglior pilota d’auto in circolazione di cui la malavita può servirsi per sfuggire alla polizia dopo un colpo. Nel corso della vicenda un ispettore di polizia però lo bracca ma una bella giocatrice lo aiuta mentre un gruppo di banditi lo tradisce...
È stato scritto delle similitudini che intercorrerebbero tra Driver - L'imprendibile e il cinema di Jean-Pierre Melville. Lo fece uno dei più intelligenti studiosi di cinema (e di cinema americano in particolare), il compianto Giuseppe Turroni, nella sua recensione del film pubblicata su Filmcritica n°292. “Come Melville, ha cadenze lente, misurate, ha tagli geometrici di una spazialità angosciata e lucida.” Può darsi che Hill, consapevolmente o meno (non risultano dichiarazioni in tal senso), abbia guardato al nero francese, e non solo a Melville. Forse la presenza della Adjani potrebbe addirittura rappresentare un riferimento/omaggio al cinema d’oltralpe (anche se questo genere di vezzi da cinefilo non sembrano far parte del bagaglio espressivo del regista, almeno per quanto riguarda la prima parte della carriera). D’altra parte è altrettanto probabile che Melville avesse come fonte d’ispirazione i maestri del cinema americano. Come disse una volta Hill, ogni regista si è formato sull’opera di un regista più anziano e così via. Dopotutto, la matrice di molte storie metropolitane di guardie e ladri è il western, che sta alla base di ogni film di Hill, Driver compreso (non a caso il protagonista viene anche chiamato Cowboy).  
Tuttavia, proprio in riferimento al cinema americano classico, vi è un'evidente differenza nella dimensione psicologica dei personaggi. In molto cinema del passato il tessuto connettivo che li unisce costituisce la loro stessa ragion d’essere. Sono drammaturgicamente e umanamente necessari uno all’altro. In Driver, al contrario, se lo sono lo sono solo per via di un‘idea astratta poiché umanamente i tre personaggi principali non si toccano, non c’è contatto tra loro, nemmeno in maniera violenta. L’unico momento in cui potrebbe esserci è quando il Poliziotto provoca l’Autista versandogli addosso una tazza di caffè; questi fa per colpirlo con un pugno, ma si trattiene. Paradossalmente, i soli contatti fisici (violenti) avvengono tra l’Autista e uno dei personaggi secondari, il rapinatore irascibile Teeth, quando il protagonista lo prende a pugni, e poi tra il rapinatore e la Mediatrice (l’uomo le spara dopo essersi fatto dire dove può trovare l’Autista). Non a caso sono probabilmente proprio questi personaggi secondari gli unici a provare dei sentimenti visibili (odio, amore, paura).  Un critico proprio per The Driver coniò il termine di film-flipper, riferendosi alle immagini e alla fotografia di Lathrop ma anche ai personaggi, che come palline schizzano da una parte all’altra in uno spazio però chiuso, limitato, sezionato dai tre lunghi inseguimenti di cui è protagonista il Cowboy che rappresentano inoltre una sorta di tripartizione della narrazione: inizio, parte centrale, fine. La città e le strade che la costituiscono rappresentano un macro-percorso entro cui i personaggi si incontrano ma senza mai conoscersi realmente (nemmeno lo spettatore li conosce, Hill lavora molto per ellissi, sintomatico il dialogo tra il Poliziotto e la Giocatrice durante il quale l’uomo fa riferimento a un “losco, lurido affare” non meglio precisato che riguarda il passato di lei).
La costruzione essenziale di Driver ha il tessuto connettivo di un reticolo di vie e percorsi, come gran parte del cinema hilliano (sembrerebbe diverso il caso dei western, ma in fin dei conti proprio dalle imprese pionieristiche nascono i primi tracciati e poi i primi insediamenti urbani). La caccia che il Poliziotto dà al Cowboy è l’ossessiva necessità di dare un senso a un mondo che non ce l’ha e di cui l’Autista rappresenta il simbolo. Personaggio isolato, enigmatico, che non possiede nulla e non sembra interessarsi a nulla (niente amici, niente donne, ha ridotto tutto all’essenziale). A suo modo un ribelle, tanto che pur essendo un provetto guidatore non possiede un’automobile, e anzi sembra provare un certo piacere nel distruggerle, come nella sequenza ambientata nel parcheggio sotterraneo (rifatta tra l’altro in un recente video per la canzone degli Skunk Anansie "My Ugly Boy"). Il Cowboy non è certo un eroe, anche se possiede alcune caratteristiche che possono avvicinarlo ai duri della narrativa hard-boiled. È un solitario, non molto simpatico e, all’occorrenza, sa anche picchiare duro. Ma ogni alone romantico e maudit è puntualmente evitato dal regista, che mira ad un’asciutta rarefazione. Atmosfera e scenari da fantascienza (si veda l’inquadratura con le ascensori in campo lungo), toni freddi nella fotografia di Philip Lathrop (parallelo alla freddezza dei rapporti tra i personaggi), il reiterato uso di spazi anonimi e che sembrano tutti uguali: strade, stanze d’albergo, parcheggi, fabbriche dismesse (strade/città come superficialità/difficoltà di rapporti) fanno di Driver uno dei film più rappresentativi di un cinema che potremmo definire post-industriale, che scopre e si identifica con una società in cui ogni valore è relativo, in cui il lavoro è qualcosa che ha perso il proprio significato: il Poliziotto sostiene di saper far bene il proprio mestiere ma in realtà lo fa malissimo, la Giocatrice si fa mantenere e viene pagata per fare l’alibi, si vive di truffe, rapine, ricatti, mediazioni.
Il lavoro diviene un gioco ma anche il gioco non è più granché divertente, lo si evince dalla reazione del vice (unico personaggio che sembra possedere una rettitudine morale, costretto suo malgrado ad accettare le regole impostigli dal Poliziotto), quando il Poliziotto gli spiega la sua teoria sul saper giocare e sui vincenti. Se da una parte dunque il film può essere visto come un lucido, pessimistico noir che mette in scena la sostanziale aridità della natura umana (e la società che ne è l’emanazione), dall'altra non si può non rilevare che con Driver (e poi con il successivo I guerrieri della notte) Hill prosegue ed estremizza (riprende ed approfondisce) un metodo di scrittura (definito dallo stesso regista Haiku style, riferendosi a un componimento poetico giapponese formato da 3 versi) e di messa in scena che elimina ogni orpello, riducendo tutto all'essenziale. Tale messa in scena (che comunque si traduce anche in una scelta delle ambientazioni molto precisa e coerente) può persino riferirsi a un’idea cinematografica realista da parte di Walter Hill. Dopotutto, la secchezza ellittica, il non fare agire in maniera forzata i personaggi, il non porli in relazione se non per un mero, arido interesse, tutto ciò può essere più veritiero che non un’elaborata costruzione drammaturgica. Si veda il finale privo di pathos (d’altra parte il surplus spettacolare è già stato affidato al lungo inseguimento al termine del quale l’Autista e la Giocatrice recuperano la valigetta con il denaro di cui s’è impossessato Teeth) e alquanto enigmatico. Si può immaginare che la Giocatrice metta nel sacco il Cowboy impossessandosi del denaro, salvandolo nel contempo dalla trappola tesagli dal Poliziotto. Ma chi può dire che i due personaggi non siano d’accordo e che non si rivedano poco dopo andandosene insieme? Viene in mente una riflessione di Luis Buñuel: “Posso solo dire che nella vita ci sono situazioni che non finiscono, che non hanno soluzione.” (da: Tomás Pérez Turrent-José de la Colina, Buñuel secondo Buñuel, Ubulibri, pag. 182). Questa non-soluzione hilliana fa pensare a una sorta di realismo sospeso, anche se l’accostamento Hill-realismo potrà sembrare ad alcuni azzardato.
   
a cura di Roberto Frini