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Speciale Km 98 - Edizioni Anordest

La redazione GHoST segnala Km 98, la risposta italiana alla coppia Douglas Preston & Lincoln Child, il primo Medical Ghost Thriller: quando Doctor House incontra X-Files. Il nuovo entusiasmante romanzo di Edoardo Rosati e Danilo Arona (leggi l'intervista con Arona) edito da edizioni Anordest.
Horror, leggende autostradali, archeo-misteri, scienza medica, parapsicologia: una miscela destinata a lasciare il segno nell'immaginario dei lettori!
KM 98: se una maledizione dall'altro mondo si trasforma in una malattia di questo mondo, chi potrà mai guarirti?
       
LA MALEDIZIONE
Dieci incidenti mortali, uno ogni anno, dal 2000 a oggi. Tutti rigorosamente il 29 dicembre, alle ore 5,30. Dieci vittime, dieci lastre radiografiche, ognuna perfettamente identica alle altre. Con le stesse, precise fratture. Dieci giovani donne uccise da un mistero chiamato “Sindrome di Melissa”. Come arrestare la catena delle morti? L’unica cura possibile sta nelle mani di un neurochirurgo. E della sua sconvolgente Medicina occulta. I cui segreti scardineranno per sempre tutti i pilastri del sapere medico odierno.
       
IL PLOT
Italia. Padova. Una maledizione invisibile sta collezionando una sfilza di vittime. Giovani donne, che muoiono nel sonno. Con le ossa fratturate in maniera sempre identica. Ma nessuno s’è accorto di questa morìa. Nessuno collega i decessi, che sembrano verificarsi una volta all’anno: incredibilmente, tutti il 29 dicembre, alle 5,30 circa. Nessuno, tranne un giovane universitario di Padova, laureando in Medicina, che ha visto morire proprio in quell’assurdo modo la sorella. Il filo rosso che connette le diverse morti potrebbe chiamarsi “sindrome di Melissa”, una realtà clinica misconosciuta, descritta per la prima volta da un medico italiano in pensione. Il giovane non esita a mettersi in contatto con lui, scoprendo che la catena dei decessi ha avuto inizio nel 1999, quando il medico soccorse una ragazza albanese, senza documenti e ribattezzata “Melissa”, investita sul tratto iniziale dell’autostrada Padova-Bologna. La sequenza sta continuando a uccidere… Qualcosa di maligno sembra trasmettersi da quel pezzo nebbioso di autostrada, sporcato dal sangue innocente di una ragazza. Siamo a dicembre e la prossima vittima potrebbe essere proprio la fidanzata del giovane, tormentata, in quei giorni prenatalizi, da una serie di violenti sogni premonitori. Scatta una spasmodica corsa contro il tempo. La soluzione per spezzare la sindrome? Una “terapia” non di questo mondo. Che verrà attuata da un neurochirurgo di Bologna. Nel cui occulto ambulatorio sotterraneo pratica la sconvolgente Medicina Ectenica, figlia dell’arte sanatrice coltivata dai druidi di Stonehenge. L’unica che guarisce. Non solo i vivi. Ma anche le anime senza pace dei morti.
        
IL ROMANZO
Alle ore 5,20 del 29 dicembre 1999 una ragazza senza documenti, bionda e con giubbetto rosso, venne investita da un automobilista assonnato sulla Bologna-Padova, all'altezza di San Pelagio, km.98. 
Il folclore popolare la battezzò “Melissa”. E la povera vittima nel giro di un decennio è divenuta una leggenda, un fantasma della strada che ogni tanto qualcuno dichiara di avvistare.
Alle ore 5, 20 di ogni anno successivo, in un bacino geografico di cui il km 98 dell’autostrada sembra essere il cuore,  comunque sempre nella pianura veneta attorno a Padova, una ragazza qualunque ma sempre bionda, avrà un incubo terribile dal quale non si sveglierà più. I famigliari che accorreranno in camera sua la troveranno morta, in posizione scomposta, con ferite terribili e con fratture che vengono accertate in seguito.
      
Anni fa Arona scrisse la seguente “Cronaca di Bassavilla”…
    
PEOPLE WHO DIE MYSTERIOUSLY IN THEIR SLEEP di Danilo Arona
Nel dicembre del 2000, mentre indagavo sui bedroom invaders di Bassavilla e dintorni (ce ne sono un sacco, soprattutto in campagna), venni a conoscenza dell’incredibile e tragico caso di P.M., una ragazza di ventidue anni che faceva l’operaia da qualche parte e che era morta nel sonno più o meno un anno prima. Lei abitava con i genitori in una casa a pochi metri dalla Statale, in un sobborgo tagliato in due dalla linea ferroviaria Alessandria-Ovada. Da più di un mese la ragazza accusava disturbi comportamentali che, in prima battuta, portavano a ipotizzare la narcolessia. Si addormentava di colpo durante il giorno, vedeva strane e incomprensibili immagini ai bordi della visuale e di notte faceva fatica ad assopirsi, ma poi non riusciva a svegliarsi. E urlava, con gli occhi chiusi, implorando i genitori di “portarla via da lì”, perché qualcosa era sempre sul punto di metterne a repentaglio l’incolumità.
Da alcuni giorni il repertorio clinico si era sinistramente stabilizzato: pochi minuti dopo le cinque del mattino, iniziava a lamentarsi e in un crescendo angosciante, con i genitori accanto al letto che tentavano di riportarla dolcemente alla realtà, pregava con gli occhi serrati di essere svegliata. “Sta arrivando per uccidermi e non riuscirò a scansarmi. Mamma, fammi tornare a casa!” Andava avanti così per un’oretta circa, quindi si rasserenava e tra le sette e le otto si svegliava più o meno normalmente.
La mattina fatale, intorno alle cinque, la madre si trovava già accanto al letto della figlia in un generoso tentativo di giocare d’anticipo. Le toccò invece di assistere a un dramma di cui mai avrebbe capito i particolari, perlomeno quelli che contano. Mentre il marito dormiva un sonno profondo in un’altra parte della casa, la donna notò che la figlia, rannicchiata sul letto, iniziava – come di consuetudine da più o meno una settimana – ad agitarsi e a biascicare parole senza senso. Per quel che poco che intese, la ragazza sognava di trovarsi tutta sola in un posto sconosciuto, forse un’autostrada (“ci sono luci e macchine dall’altra parte!”), dove stava camminando in preda a un’angoscia sempre più crescente perché “qualcosa o qualcuno era sul punto di arrivare”. Alle cinque e diciannove, con tutto il corpo in preda a un tremore diffuso che faceva sussultare allo stesso modo anche il materasso, P.M. Mormorò: “Ma di chi è questo giubbetto? Non è mio!” e, subito dopo: “Mamma, svegliami, non c’è più tempo!”
Alle cinque e venti la madre vide la figlia prima contorcersi urlando e balzare in aria di circa un metro come se il materasso stesso l’avesse presa a calci. La guardò ricadere e finalmente riaprire gli occhi, che rimasero sbarrati con la bocca semiaperta e la testa piegata sul collo in una posizione quasi assurda tanto appariva piegata.
Il marito, risvegliato dal frastuono, accorse nella camera della figlia e trovò sua moglie con le mani sulla testa e le labbra che si spaccavano alla ricerca della voce perduta e di un urlo che non voleva saperne di uscire.
Quello fu un caso di cui si parlò poco sui giornali. Era un evento imbarazzante, forse roba da RIS di Parma. Ma quei genitori erano al di sopra di ogni sospetto. E neppure il RIS sarebbe stato in grado, forse, di delineare uno scenario diverso da quello descritto, con tragica consapevolezza, dalla madre testimone che aveva visto morire la figlia sul letto di casa, uccisa da un incubo.
Ma stranezze e contraddizioni restano e il caso, per quel che ne so, è ancora aperto. L’autopsia che si fece d’ufficio sul cadavere di P.M.
Riscontrò tutta una serie di lesioni interne che non si adattavano alla testimonianza rilasciata dai genitori. “E’ il classico quadro di chi viene investito da un mezzo lanciato a tutta velocità”, riferì – almeno così riportano – il dottor G. Coscia, anatomopatologo dell’Ospedale Civile di Bassavilla.
P.M. Era morta la mattina del 29 dicembre 1999. Stesso giorno, stessa ora stesso minuto in cui una ragazza bionda, sconosciuta al mondo, veniva travolta sull’autostrada A13 a qualche chilometro da Padova.
     
Riccardo Parisi non ha mai abbandonato la sua ossessione per gli  eponimi medici, e quando nell'anno scopre che una ragazza della sua città (Milano?) è morta nel sonno alle 5, 20, evidenziando un quadro clinico conforme alla Melissa's Syndrome (stesse fratture alle clavicole!), si sente ghiacciare il sangue e inizia a indagare. Tutti gli anni, dall'anno 2000 a oggi, una ragazza a caso in una città a caso alle 5, 20 del mattino della stessa, fatal data, vive l'incubo della morte di Melissa e muore nel letto con le identiche lesioni interne. 
      
A questo punto, dopo la scoperta, la corsa contro il tempo: perché in Italia, chissà dove, c'è una ragazza da salvare. Soprattutto c'è da spezzare la tragica catena di morte onirica... Anche perché la prossima vittima potrebbe essere la fidanzata di Riccardo.
      
1999, ore 5, 20 sulla Bologna – Padova. Travolta e uccisa mentre inizia a nevicare, Melissa è stata dimenticata… ma lei non dimentica. E non dimenticherà mai più.
Dopo avere letto Km 98 non affronterete mai più da soli un’autostrada di notte...
Km 98, anno: 2015, pagine: 160, collana Criminal Brain, editore: Anordest Edizioni.
      
    
GLI AUTORI
     

Edoardo Rosati (Pescara, 1959), laureato in Medicina, è giornalista specializzato nella comunicazione medico-scientifica.
Dal 2003 è responsabile delle pagine dedicate alla Salute del settimanale OGGI. Ha firmato per Rizzoli, Sonzogno e Sperling&Kupfer numerosi saggi di divulgazione medica di successo. In particolare, per Sperling&Kupfer ha scritto Kuru - Il morbo del nuovo millennio, ricostruzione drammatizzata della vicenda “mucca pazza”. E’ anche autore di narrativa medical thriller, con racconti pubblicati nelle antologie Le tre bocche del drago (Larcher Editore), Anime Nere (Oscar Mondadori), Bad Prisma (Mondadori Epix). Ha firmato i romanzi La croce sulle labbra con Danilo Arona (Edizioni Anordest) e L’ultima vertigine (Giallo Mondadori). Scrive articoli di fumetti e cinema fantastico, e nel 1996 è stato uno dei fondatori della casa editrice PuntoZero.
       
Danilo Arona, scrittore, chitarrista e critico cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Melissa Parker e l’incendio perfetto (Dino Audino), Black Magic Woman (Frilli), Palo Mayombe e Cronache di Bassavilla (Flaccovio), L'estate di Montebuio (Gargoyle Books), Ritorno a Bassavilla (Edizioni XII),  Malapunta – L’isola dei sogni divoratori (Cut Up), Finis Terrae e Bad Visions (Mondadori),)  La croce sulle labbra (Anordest) in coppia con Edoardo Rosati, Io sono le voci (Anordest), Vento bastardo (Iris 4), L’autunno di Montebuio (NeroCafè) con Micol Des Gouges, Rock (Edizioni della sera), Km 98 ancora con Edoardo Rosati (Anordest), Un brivido sulla Schiena del Drago (Larcher) e Croatoan Blues (NeroCafè). Incontro con Danilo Arona, leggi l'intervista.
     
© Danilo Arona & Edoardo Rosati 2015
 

Intervista con Danilo Arona

Danilo Arona, scrittore, chitarrista e critico cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Melissa Parker e l’incendio perfetto (Dino Audino), Black Magic Woman (Frilli), Palo Mayombe e Cronache di Bassavilla (Flaccovio), L'estate di Montebuio (Gargoyle Books), Ritorno a Bassavilla (Edizioni XII),  Malapunta – L’isola dei sogni divoratori (Cut Up), Finis Terrae e Bad Visions (Mondadori),)  La croce sulle labbra (Anordest) in coppia con Edoardo Rosati, Io sono le voci (Anordest), Vento bastardo (Iris 4), L’autunno di Montebuio (NeroCafè) con Micol Des Gouges, Rock (Edizioni della sera), Km 98 ancora con Edoardo Rosati (Anordest), Un brivido sulla Schiena del Drago (Larcher) e Croatoan Blues (NeroCafè).
    
Tu hai curato un'antologia di racconti sulla storia del fantasma Melissa. A quando risalgono gli “avvistamenti”? Tra i testimoni c’è stato un camionista. Ci racconti meglio questo episodio?
   
Come molte altre persone, ho incontrato il personaggio all'inizio dell'anno duemila  quando in rete fece la sua comparsa il sito http://www.melissa1999/, dedicato a una sfortunata, anonima ragazza investita sulla A4, all'altezza di San Pelagio, alle 5, 20 del mattino in data 29 dicembre 1999. La storia che vi si raccontava mi colpì molto per più di un motivo. Il mistero personale di una giovane creatura che barcollava dalle parti dell'uscita per Padova in quello stranissimo orario; la bizzarra componente, all'apparenza “parapsicologica”, che aveva fatto sì che l'immagine della ragazza fosse stata percepita da altri testimoni su altre autostrade alla stessa ora dell'investimento; la verosimile genuinità delle testimonianze; l'enigmatico “nome di battesimo” con il quale si era voluto dare alla ragazza, impossibile capire da parte di chi, una sorta di nickname identificativo. Per la cronaca, non mi posi neppure per un momento l'ipotesi che quella storia non fosse vera, quanto meno l'episodio dell'investimento.
Il sito, curato da un webmaster di nome Francesco, era abbastanza semplice, dettagliato e di buona percorribilità. Oggi questo sito non esiste più, essendo stato rimosso da tempo. Io riuscii a scaricarne il più possibile prima della sua definitiva scomparsa. Quello che so sul camionista testimone proviene esclusivamente da quei materiali. Per ciò che raccontava Francesco, nell'identico istante in cui Melissa moriva investita a San Pelagio, la sua “immagine” veniva captata da altri tre viaggiatori del primo mattino in altrettante località molto distanti (A1, Svincolo San Martino – A13, direzione Venezia – A27, Treviso Sud) che la “videro” barcollare al centro strada, e chi ebbe l'illusione di “investirla”, passandoci attraverso, e chi riuscì a evitarla per un soffio. Come, appunto, l'anonimo camionista friulano che la vide camminare sul ciglio della corsia d'emergenza, mentre tendeva a spostarsi al centro strada. Lui la descrisse – e in questi particolari tutte e quattro le testimonianze concordano – come una barcollante ragazza bionda, vestita di jeans e giubbotto rosso, che ondeggiava come in preda a un malore o a uno stato alterato. Fermatosi qualche decina di metri più in là, il camionista tornò indietro a piedi per portare soccorso alla tipa, ma non trovò nessuno. Francesco, il webmaster, azzardava un'interpretazione del fenomeno in chiave di “proiezioni mentali”, non specificando a quale mente attribuire questa raggiera di immagini “sparate” per l'Italia in una sorta di ideale triangolo autostradale.  Se, appunto, alla mente dell'eventuale, povera vittima o a quelle dei testimoni... Altro, in merito al camionista, non mi pare che esista. Del resto, il sito “melissa1999” è stato l'unica fonte “ufficiale” per le notizie inerenti al caso. Notizie che non hanno mai trovato conferma di nessun tipo presso forze dell'ordine o il 118. Reputo il tutto, come allora, un'affascinante leggenda metropolitana, forse costruita ad arte dal misterioso Francesco (di cui non si è saputo più nulla, nonostante reiterati appelli a farsi vivo...) e, come tale, degna di essere sfruttata al meglio in chiave di fiction. Così ho fatto in diversi libri: “Cronache di Bassavilla”, “Melissa Parker e l'incendio perfetto”, l'antologia “Bad Prisma” e “Ritorno a Bassavilla”. Il dato, antropologicamente “pesante”, è che qualcuno da allora “vede” Melissa – con quel look preciso, jeans e giubbotto rosso – sempre di notte e non sempre in autostrada. E, come mi scrivono da Padova, c'è chi porta fiori all'altezza di quel presunto investimento. Niente male... Dopo essere stata “inventata”, Melissa è divenuta un fantasma? A quesiti del genere non si danno risposte...
     
Leggende metropolitane e storie di fantasmi, quante e quali parlano di camion e/o camionisti? Ce ne racconti qualcuna? Quali sono le più recenti?
     
Il mondo dei camionisti entra ovviamente di diritto nel leggendario contemporaneo che si ambienta nel “contenitore” autostradale o stradale tout court. Per forza di cose, in quella legend universalmente definita come “autostoppista fantasma” (anche se in molte versioni non necessariamente fa l'autostop). Una delle più famose e circostanziate proviene dall'antropologo Cesare Bermani che l'ha raccolta da un'artigiana di Orta Novarese. A costei l'avrebbe raccontata un camionista di Borgomanero nel 1990. In Veneto (guarda caso...), in un punto dell'autostrada vicino a un'area di servizio, venne investita una donna da un camionista che era scappato senza prestare soccorso. La sua automobile si era guastata e lei stava cercando di fermare qualcuno per raggiungere il più vicino casello. La trovarono stecchita in un fosso vicino al guard-rail. Allora i camionisti che parcheggiavano nottetempo in quell'area di servizio sentivano il camion ballare e, quando uscivano per vedere che succedeva, non avvistavano niente e nessuno. Però uno di loro raccontò di avere visto una donna arrampicata sul finestrino dove c'è il deflettore, con la faccia tutta insanguinata. E gli colse un infarto. Poi quell'apparizione la videro altri tre e molti ne sentirono parlare. Chi dormiva lì, si svegliava di colpo perché il camion ballava. I camionisti non si fermarono più in quell'area di servizio.
Di storie più recenti c'è quella, quasi una classica ghost story, che si ambienta all'autogrill Tevere sulla A1  in direzione Firenze. Si dice che di notte, a quelli che si fermano a dormire, appaia una donna che sta cercando il marito, anche lui camionista defunto in un incidente. Bussa allo sportello e poi svanisce di fronte di fronte al malcapitato. Al di là della somiglianza con quella precedente, qui abbiamo un fantasma alla ricerca – notturna- di un altro fantasma, il che è molto interessante. Poi ci sono un sacco di “brandelli” trasmessi oralmente in versione “camionistica” della ragazza autostoppista che sale a bordo e comincia a fare previsioni sull'imminente fine del mondo (siccome il 2012 è dietro l'angolo, questa tipologia di urban legend è in aumento...) e poi “svanisce” di colpo, in ossequio alla definizione anglosassone del mito che è “The Vanishing Hitchhiker”. Non esiste quasi mai una fonte cartacea perché chi le riferisce poi non ha nessuna voglia di mettersi in gioco come testimone con tanto di dati anagrafici. Nel '90 però uno studente di Crusinallo, Simone Pizzi, riportò come sentito dire che dalle sue parti molti camionisti asserivano di avere caricato una tipa menagrama che annunciava l'Apocalisse. Infine va annotata l'identità tra fantasma, o creatura soprannaturale in genere, e camionista: in America è diffusa la leggenda sulla Route 666, nello Utah e nel Colorado, di Mad Trucker, un diabolico serial killer cui vengono attribuite le non poche scomparse di persone su quella tratta. Leggenda quasi di sicuro, però esistono un paio di testimoni che hanno visto un misterioso camion stritolare ai 130 km all'ora dei poveri pedoni che camminavano sul ciglio della strada. Ma in Italia, incidenti, a parte, non mi risulta nulla del genere.
    
Ricordi la storia del Fantasma di Fabro?
    
E' una variante sul solito tema. Mi pare risalga all'inizio del decennio, in concomitanza significativa con l'inizio del mito di Melissa. Fabro, provincia di Terni... Anche qui un fantasma di sesso femminile, bionda e bella e con accento straniero (ulteriore assonanza “melissiana”: di lei si vociferava che fosse slava...) che, se non sbaglio, chiese passaggi a diversi camionisti in quella zona. Solo che a differenza di Melissa, questa si presentava come la più classica delle Dame Bianche, che sono proprio una speciale categoria di “apparizioniste” dell'altro mondo. Ovvero, era tutta vestita di bianco ed emanava quasi un alone della stessa tinta. Come lo spettro dell'autogrill Tevere,  pure costei chiedeva un passaggio per il nord. Solo che le voci raccontavano di parecchi camionisti che l'avevano caricata e che l'avevano vista svanire, dopo un breve tratto di strada. Il particolare circostanziato del fantasma di Fabro mi pare consistesse nel fatto che lei non svaniva nell'abitacolo, ma chiedeva prima di scendere. E, quando lo faceva, da buon fantasma passava attraverso lo sportello. A Fabro, dopo tante segnalazioni proprio da parte di conducenti di mezzi pesanti, fu pure scoperto un “mito di fondazione” (non così raro, dato che sulle autostrade più infestate del mondo dai fantasmi della strada, a monte di apparenti leggende ci trovi spesso qualche tragico e tremendo incidente...), risalente all'agosto del 1989, quando un'automobile con a bordo una giovane coppia tedesca, lui e lei, sbandò e finì nella scarpata sottostante proprio quell'area di servizio in seguita chiamata in causa dalle apparizioni. L'uomo morì sul colpo e lei, ferita, si trascinò fuori dall'abitacolo e corse verso l'autostrada, purtroppo finendo sotto le ruote di un autoarticolato che non poté far nulla per evitare l'impatto. Sarebbe da allora che manifestazioni spettrali con la Dama Bianca che chiede il passaggio si sarebbero alternate a varie testimonianze segnalanti urla e lamenti provenienti dal fondo della scarpata. Il tutto è, se vogliamo, molto “classico”, molto di repertorio... Se non fosse per certe sinistre assonanze che agli studiosi “di confine” potrebbero dire qualcosa. Pochi giorni fa, l'11 di gennaio, nell'identica zona sono morti in un drammatico incidente due coniugi tedeschi con il coinvolgimento nel sinistro di un Tir. Le circostanze sono state molto analoghe all'incidente del 1989 sia come orario (dopo le cinque del mattino) che come modalità (travolti in mezzo alla strada dopo un tamponamento...). C'è chi le chiama “maledizioni”. E in Italia il repertorio delle strade maledette non è affatto assente...
   
Tu come fai a trovare le storie? Sei mai stato testimone diretto di un “avvistamento”?
    
Le storie in genere me le vengono a raccontare. Ancora prima dell'avvento di Internet. Poi sin dalla più tenera età ne vado alla ricerca, soprattutto per nutrire la narrativa che scrivo, perché mi piace sempre partire da un dato oggettivo, di cronaca. A volte anche il più banale degli incidenti nasconde delle bizzarrie, o qualcosa di misterioso. E si tratta del tipo di storie a più alto tasso di coinvolgimento perché viaggiamo tutti sulle autostrade... Io no, non sono mai stato protagonista di avvistamenti. Chi lo è, possiede un particolare potere di “visione” affine a quello di un medium (che sia ovviamente un medium autentico, e non un pataccaro...). Al di là delle leggende – ma qui le discipline s'intersecano in un mix affascinante e indistricabile -, chi vede i fantasmi della strada, ovvero gli involucri animici di coloro che sono periti causa incidente e che stazionano – o stazionerebbero, usiamo il condizionale... -  vicino a dove i loro corpi fisici si sono danneggiati irrimediabilmente, possiede non un dono, ma un'autentica “condanna”. Io ne ho conosciuti un paio, e ambedue hanno rinunciato per sempre a uscire in macchina. Anche se accompagnati da qualcuno. Quello che vedono, a loro dire, ai bordi delle strade è inguardabile...
   
Poi, ci sarebbe un’ultima domandina: ci sono strade che potremmo definire “infestate” in Italia? Ho trovato una classifica delle strade del mondo, in testa alcune americane e inglesi, ma nessuna italiana… 
   
Non si trova perché nessuno si sogna di stilare una classifica del genere. Gli anglosassoni hanno molto più senso dello humour nonché del gotico. A me è venuto in mente qualche volta di proporla, ma c'è il rischio di ritrovarsi querelato dalla Società Autostrade. Un conto è dire – e molti giornalisti l'hanno già fatto – che c'è un pezzo di autostrada “maledetta” dove capitano più incidenti del solito per ragioni “tecniche”(ad esempio, un certo tratto della A4, tristemente famoso, o la Salerno-Reggio Calabria, e in questo caso nessuno potrebbe contestare la statistica) e un altro conto è sostenere che un alto numero di incidenti mortali vanno addebitati a “maledizioni”, “infestazioni” e spettri alla Melissa... Ci vedo un bel po' di addebiti: abuso della credulità popolare, procurato allarme, etc..., ma soprattutto, in tutta onestà, non abbiamo granché di appigli scientifici “riconosciuti”, a parte i nodi geopatici del reticolato di Hartmann che rendono, a detta di molti studiosi, alcune strade assai pericolose. In ogni caso, nel mio lavoro – anche quello a prima vista “fantastico”, per certe autostrade sono sempre partito da inoppugnabili dati di fatto. I miei primi romanzi degli anni Ottanta (La penombra del gufo, Un brivido sulla Schiena del Drago) si ambientavano in buona parte sulla A 26, nel tratto comprendente Ovada, Masone e il Passo del Turchino. Questo piccolo “triangolo delle Bermude” locale, da che mi ricordo, è considerato iellato e segnato da una notevole percentuale di incidenti strani. Troppo affascinante dal mio punto di vista per non approfittarne.
    
Se ti va, infine, potremmo approfondire il discorso dei “veggenti”: avere una sensibilità “particolare” è condizione sine qua non per “incontrare” i fantasmi della strada? Oppure, almeno una volta nella vita, potrebbe incontrarli chiunque?
    

Per quel che mi risulta, la notevole quantità di persone che li avvista mi fa propendere per la seconda ipotesi. Anni fa, durante una trasmissione notturna di RAI1 (La notte dei misteri), con Cesare Bermani in diretta da Orta, lanciammo il tema del “fantasma della strada”, inteso soltanto come leggenda metropolitana. I centralini furono intasati da decine e decine di telefonate provenienti da tutta Italia che attestavano, date le testimonianze che venivano rilasciate in forma non anonima, che a detta dei testimoni si trattava di genuine esperienze paranormali, di quelle che chiameremmo per capirci “ai confini della realtà”. Erano tutte persone che viaggiavano per mestiere soprattutto di notte, ed è molto probabile che fra di loro ci fossero anche dei camionisti. Onestamente non ricord0. Ma era una stupendo repertorio di apparizioni evanescenti e sfocate, dame bianche, ragazze caricate a un autogrill e poi scomparse - “sgranandosi” davanti agli occhi – dopo magari avere giaciuto con i soggetti. Insomma, quella notte imparai che il confine tra leggenda e mito del paranormale è sottilissimo.
      
Puoi ambientare l'intervista nella mia mansarda-studio, nel cuore della pianura tra Alessandria e Ovada. Un luogo tenebroso, pieno di maschere spaventose provenienti da ogni parte del mondo e zeppo di migliaia di libri “pericolosi”, con il padrone di casa che ti guarda con occhi allupati prima di...
       
… dai, scherzo. 
Comunque casa mia, se la vuoi descrivere prima di “salire”, è una classica cascina ristrutturata di stile piemontese: mattoni rossi pieni e portico su uno dei due lati. Tre gatti. La casa è circondata da filari di Moscato d'Amburgo. Posteggi sotto la tettoia e poi sali...
       
© Danilo Arona
     

Ricordi indelebili - Edizioni Kimerik

La redazione GHoST segnala Ricordi indelebili, il primo romanzo horror di Blake Galen (in arte Simone Albasino) edito da Kimerik.
La storia narra di Eddie, che ha un sogno, come ogni bambino. Sogna di poter passare una splendida giornata in compagnia della madre al Parco Divertimenti di Eagle Park.
Quello che Eddie sa è che sua madre gli ha promesso di realizzare il suo sogno alla prima occasione. Di rendere quella giornata unica e speciale. Trasformarla in uno di quei ricordi che sono immuni allo scorrere del tempo. Un frammento di felicità custodito nell'abbraccio segreto dell’anima.
Quello che Eddie non sa è che quel sogno si tramuterà nel suo peggior incubo. Quel frammento di felicità diverrà un parassita oscuro divoratore di anime.
Un ricordo terrificante, marcio e immune al tempo che scorre inesorabile.
Un ricordo indelebile.
Ricordi indelebili, anno: 2015, pagine: 188, editore: Kimerik Edizioni.
Disponibile in versione ebook e stampata presso: www.ibs.it, www.mondadoristore.itwww.kimerik.it
   
L'AUTORE
Blake Galen, è uno scrittore di ventisette anni. Inizia ad amare l’horror da bambino quando, costretto a stare in ospedale per una decina di giorni e non potendo fare altro che leggere, si dedica con passione alla lettura dei Piccoli Brividi di R.L. Stine.
Dall’inizio delle scuole medie comincia a mostrare interesse per la scrittura, anche se fino all’età di ventidue anni era attirato soltanto dalla poesia. Circa due anni dopo, ricevette una proposta di pubblicazione per una raccolta di poesie sui sentimenti. Non soddisfatto però dell’offerta rifiutò. Col passare del tempo, l’interesse per la letteratura poetica è andato scemando, sostituito dalla voglia di provare qualcosa di nuovo.
Fu soltanto dopo aver letto La Storia Di Lisey, il romanzo di Stephen King ricevuto in regalo dalla nonna, che nacque il forte desiderio di provare a scrivere un vero e proprio romanzo. Nel periodo seguente si concentrò nella lettura di autori come Stephen King, Clive Barker, Edgar Allan Poe e Howard P. Lovecraft, cercando di trovare lo stile che più si avvicinava alla sua persona e dopo tante letture Stephen King si guadagnò il gradino più alto del podio degli scrittori preferiti. Dopo aver trovato lo stile giusto cominciò il vero e proprio processo di scrittura, fino al compimento della sua prima opera intitolata Ricordi Indelebili.
Quello che più lo attira del genere horror, è l’idea di trasmettere paura. Convinto del fatto che non ci sia al mondo una persona immune a questa magnifica e al contempo terrificante emozione.
     

Pensiero del giorno - Tony Fields 29/05/2015

...Dovresti essere fedele al tuo eroe... nei hai bisogno. (Tony Fields in Morte a 33 giri)
 
     

Infernalia di Clive Barker

Infernalia è l'opera prima di ciò che è l'horror moderno, un'opera della quale non si può fare a meno se si vuole entrare nel nuovo horror letterario dei nostri tempi dall'entrata principale e non da una finestra al decimo piano. Per affibbiargli un'etichetta originale lo definirei non splatterpunk, nome del quale si è abusato, ma cleptomane, nel senso che per una volta è la letteratura a rubare ingredienti dal supermercato del cinema e non viceversa. Nei racconti di Barker è proprio questo che si incontra: le particolarità e i dettagli del cinema splatter e gore in passi come quello che seguirà. "Rialzando la testa sentì qualcosa che gli sfiorava i capelli. Una pioggerella di vermi gli cadde sulla faccia e allora levò lo sguardo e vide Henessey, o quel che restava di lui, ancora appeso alla trave del porcile. I suoi lineamenti erano irriconoscibili, anneriti in una cadente poltiglia. Il corpo era smangiucchiato all'altezza dell'anca e dalla fetida carcassa pendeva davanti alla faccia di Redman una scomposta matassa di budella..." 
Il libro si divide in 6 racconti agghiaccianti vietati ai deboli di stomaco. 
Inizia con Il libro di Sangue: da una casa maledetta una giornalista e un suo collega tentano di creare sensazionalismi facendo credere che da una crepa nel muro tornano le anime dei morti sulla Terra, finquando queste anime non tornano veramente. Macelleria Mobile di Mezzanotte, che troviamo anche sull'antologia di Paul M. Sammon Splatterpunk, dove il vagone di una metropolitana viene trasformato in una macelleria ambulante che gira nei bassifondi della città alla ricerca di prede umane. 
Il Ciarliero e Jack, un demone viene spedito sulla Terra per prendersi l'anima di Jack che deve espiare le colpe della madre ma, tra gatti che esplodono e tacchini ripieni che svolazzano per casa, sarà alla fine Jack ad avere la meglio. Mai dire  maiale, una scrofa che si impossessa spiritualmente dei frequentatori di un college così da costringerli ad ogni tipo di sacrificio umano e non per il benessere del proprio palato. Sesso, morte e stelle, la morte dei vivi che viene assoggettata alla vita dei morti in un'orgia di stati dove con il girare le pagine non si capirà più quali siano gli uni e quali gli altri. 
In collina, le città, città che diventano umane trasformandosi in giganti di carne per combattersi tra di loro in mezzo a morte, solitudine e disperazione. Libro D.O.C.
   
SCHEDA
Infernalia
Autore: Clive Barker
Editore: Bompiani
Edizione: 1984, pagine 222
      
a cura di Massimiliano Medici
   

Senza nome di Sanguinaria Biancaneve


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Camminava sospesa nel vuoto, senza nome, senza volto; metteva le mani avanti, ma svanivano nel vuoto.
Era iniziato tutto per caso, se esiste il caso…
A chi le stava vicino, dava una strana sensazione di freddo intenso, un brivido nella schiena, un’oscurità densa e pesante, quasi tangibile, percepibile come un buco nero, in mezzo ad un cielo stellato.
Le si era aperta la terra sotto ai piedi ed era precipitata giù, sempre più giù, nel tunnel dell’infinito passato senza inizio, perdendo la fede in quello che era ed aveva vissuto.
Aveva perso la memoria di se e guardava il mondo senza colori, in bianco e nero, come una vecchia foto sbiadita.
Ogni tanto si domandava dove fosse e chi fosse veramente, se la sua vita esisteva davvero o era solo un brutto sogno, in attesa che qualcuno venisse a svegliarla.
Le avevano dato un nome, ma non lo ricordava.
Compariva con la nebbia e scompariva col sole, nascondendosi nell'ombra di chi le camminava vicino, trasformandosi in un mostro famelico alla ricerca di anime dannate ed esseri che non avevano mai vissuto.
Credeva che l’oracolo le avesse indicato la strada per la fede, se pur invisibile, da qualche parte doveva essere finita.
Aveva perso il tempo, il suo ritmo che scorreva veloce, come il battito del cuore di un neonato, come da un treno in corsa era stata travolta via…
Provando a ricostruire il suo passaggio, tentando di impegnarsi in qualcosa di semplice come respirare, cercando semplicemente l’intuizione della vita o di far passare le cose cattive che aveva visto.
Ma nulla era cambiato.
Il mostruoso amico errante, come un randagio vagabondo, continuava a bussare alla sua porta ogni giorno o forse ogni istante.
Le lacrime cadevano copiose bagnandole il suo volto, non erano le sue, non poteva sentirle, gli occhi avevano perso la luce.
In un grande specchio, vedeva la sua immagine riflessa, ma non la riconosceva più.
Un soffio di vento, le scompigliò i capelli.
Pensando che era ancora viva, che forse c’era ancora tempo, si fermò al centro del mondo, osservandolo scorrere in silenzio, poggiando la testa di lato, quasi incredula, vide la clessidra col suo nome inciso sopra. Era stata girata per l’ultima volta, l’ultimo granello era scivolato via, la speranza sostituita dalla paura.
Una bella signora le protese una mano, dicendole con voce soave: vieni con me.
Il grande buio l’aveva presa con se e finalmente sorrise davvero.
Era tornata a casa dai suoi simili.
 

Alien di Ridley Scott

Il 1979 è l’anno che, dopo l’attenzione della critica, porta a Hill anche i primi successi al botteghino. Non solo come regista di The Warriors, ma anche come produttore, insieme a David Giler e Gordon Carroll, di Alien. Si tratta dell’esordio come producer di Hill, che in seguito produrrà non solo gran parte dei propri film (alla maniera dei grandi vecchi di Hollywood, si può presumere più che altro per avere un maggiore controllo artistico) ma anche alcuni (pochi) di altri registi, autodefinendosi “un medio produttore indipendente”. Nel 1978 nelle mani di David Giler capita una sceneggiatura scritta da Dan O’Bannon e Ronald Shusett. O’Bannon ha studiato alla University of South California come John Carpenter e proprio con Carpenter ha realizzato un cortometraggio di fantascienza come prova d’esame, Dark Star, diventato poi un lungometraggio nel 1974. Già ideando l’alieno di Dark Star (un palloncino) O’Bannon aveva pensato a un soggetto con un alieno meno grottesco e più terrificante. Da questa idea nasce lo script di Alien. Giler legge la sceneggiatura e la trova interessante, tanto da passarla al socio Walter Hill. A Hill piacciono molto alcune parti ma complessivamente non lo soddisfa appieno. Ci mette mano, insieme a Giler, aggiungendo alcune idee (il gatto di Ripley, il robot). Secondo O’Bannon, Hill, Giler e il terzo socio Gordon Carroll avrebbero avuto l’intenzione di appropriarsi del suo script, estromettendolo. Anche se poi alla fine sui titoli di testa risulteranno autori della sceneggiatura solo lui e Shusett. Querelle a parte, attraverso vari apporti prende forma il copione di uno dei più importanti film di fantascienza degli anni Settanta. Superato lo scoglio della sceneggiatura e trovata nella Twentieth Century Fox la major disposta a finanziare il film, parte la caccia al regista. Si pensa all’anziano maestro Robert Aldrich, reduce da alcuni bellissimi film come I ragazzi del coro e il fantapolitico Ultimi bagliori di un crepuscolo, entrambi del ’77. Poi a Peter Yates, regista che Hill conosce dai tempi di Bullitt e che ha dimostrato col sottovalutato Abissi (’77) d’essere abilissimo nel genere avventuroso e nel creare suspense.
Lo stesso Hill entra nel novero dei candidati, ma si tira indietro non sentendosi a proprio agio con gli effetti speciali e anche perché gli è stato offerto di dirigere un western, poi mai realizzato. Alla fine la scelta cade su Ridley Scott, regista che ha maturato grande esperienza nel campo pubblicitario e che si è segnalato per il suo film d’esordio, I duellanti, del 1977. Il regista inglese si applica meticolosamente per realizzare un film pieno di suspense e molto elaborato dal punto di vista visivo, curatissimo sotto il profilo scenografico e degli effetti speciali. Se volessimo, forzando un po’, considerare Alien un film con più paternità, quindi tanto di Scott quanto di Dan O’Bannon quanto di Hill (e di Giler, Shussett, Giger eccetera) e lo considerassimo dopotutto un film americano al di là del fatto che il regista sia inglese e che sia stato girato in Inghilterra, vedremmo alcune affinità con I guerrieri della notte (sceneggiatura sostanzialmente scarna, azione privilegiata, personaggi uniti in un gruppo che devono difendersi da un nemico, ambientazione notturna). Non abbiamo intenzione di rendere d’autore cioè che non lo è, e ci pare obiettivamente di poter considerare Alien un’apprezzabile opera artigianale nel vero senso della parola (con buone dosi di artisticità) e non un film d’autore, ma se anche lo fosse, non faremmo certo di Hill l’autore. Più interessante capire se Alien e I guerrieri della notte siano assimilabili e rappresentino due titoli fondamentali per analizzare il cinema americano (e industriale, dopotutto) del periodo che va dalla metà degli anni Settanta alla metà del decennio successivo.
Potremmo partire dal rilevare come le dinamiche definiamole creative del cinema americano sul finire degli anni Settanta partano dalla ricerca, più o meno coerente e sistematica, di un ben preciso luogo spazio/temporale, che può anche essere un non-luogo. Luogo-non-luogo che, tenendo conto delle radici del cinema americano (la frontiera, quindi gli spazi sconfinati ma anche un saldo rapporto con la Natura, la terra, la famiglia), in un’accezione urbana significa necessariamente mutevolezza (basta passare da una via all’altra, da un quartiere all’altro), spaesamento, inconoscibilità. Alien non può certo essere definito un film urbano, eppure gli spazi dell’astronave, che nascondono un pericolo imprevedibile e reiterato, ricordano le strade popolate di potenziali nemici de I guerrieri della notte. Vi è, tra le pareti metalliche della Nostromo, la medesima, fredda, insondabile presenza mentale dell’uomo in movimento che costituisce il fulcro della messa in scena di The warriors (ma anche, seppur mediata dalle traiettorie delle automobili che quasi prendono il sopravvento su quelle umane, in Driver). La descrizione che lo stesso regista ha dato del suo cinema, la frase “faccio film su uomini duri in situazioni pericolose”, si attaglia perfettamente sia ad Alien che a I guerrieri della notte. Tuttavia si potrebbe aggiungere che i suoi personaggi sono soprattutto, nella maggior parte dei casi, personaggi che cercano un proprio spazio, un luogo sicuro o, meglio ancora, un rapporto armonioso con ciò che li circonda (si chiami tutto ciò il Mondo, la Società, gli Altri, poco importa). Non a caso nel finale di Alien Ripley espelle il mostro dalla navetta: se non siamo di fronte a una vera e propria metafora dello spazio vitale, poco ci manca.
   
a cura di Roberto Frini

Pensiero del giorno - Richard Burton 27/05/2015

...Io le posso dire, che mentre staranno pregando, io farò precipitare senza pietà quelle mura vacillanti sulle loro colpevoli teste! (Richard Burton in Il tocco della medusa)
   
   

Fahrenheit 451 di Ray Bradbury


Guy Montag è un vigile del fuoco e con la sua squadra va ad appiccare incendi, a bruciare le abitazioni di quelli che sono marchiati come sovversivi, colpevoli di possedere, nascondere e preservare i più grandi nemici dello Stato: i libri.
Montag è soddisfatto della sua vita, del suo lavoro, del  mondo qualunquista e standardizzato che come una gigantesca catena di montaggio sforna individui con pensieri, emozioni, desideri intercambiabili.
Il dubbio s’insinua nella sua vita dopo aver incontrato Clarisse, uno spirito libero così eccezionale che riuscirà ad aprirgli gli occhi: Montag si renderà all’improvviso conto che nella vita c’è molto più di quello che ha sempre dato per scontato, e il cambiamento sarà così radicale che, durante “un’azione”, compirà l’impensabile: trafugherà alcuni libri portandoli via con sé. Sarà poi sua moglie a denunciarlo alle autorità, facendolo passare da persecutore a fuggitivo, costretto a scappare, a nascondersi da un’intera città con l’occhio vigile e pronta a dargli la caccia.
Il mondo totalitario che distrugge la coscienza e trasforma gli individui in un amalgama grigia senza volontà e senza pensieri era già stato tinteggiato da George Orwell in 1984, dove il Grande Fratello spiava e teneva sotto controllo la popolazione con il pugno di ferro. Nel romanzo di Bradbury le tematiche sono simili e i nemici più pericolosi diventano i libri, le cellule, anzi il dna che permette la sopravvivenza e la diffusione della cultura.
E cosa meglio del fuoco può distruggere i libri? Il ruolo dei vigili del fuoco cambia radicalmente: diventano i custodi di un mondo piatto, vuoto, riempito con il nulla più crudo. E per farlo, distruggono, incendiano, dispensano fiamme purificatrici che illuminano il cuore di notti senza stelle. Garantiscono l’esistenza di un sistema che crea vite che all’apparenza piene, ma che in realtà mancano di una qualsiasi e minima forma di spirito critico.
Omologazione, masse che seguono la stessa corrente che porta a un oceano di qualunquismo, miopia e indifferenza.
Al vuoto appunto.
Sarà la consapevolezza a far smuovere la coscienza di Montag: non solo rinnegherà tutto il suo passato, ma cercherà la redenzione lontano dalla città, dove altri fuggiaschi vivono fuori da quel mondo che la gente da’ non solo per scontato, ma reputa necessario per la sopravvivenza dell’umanità stessa.
La penna di Bradbury è eccezionale, dire che il libro coinvolge è riduttivo: è un romanzo che non solo cattura, ma spinge a delle riflessioni sulla nostra contemporaneità e sulla società in cui viviamo. Sullo svilimento della cultura e sull’impoverimento della conoscenza che ha caratterizzato la fine del vecchio e l’inizio di questo millennio.
In questo romanzo Bradbury ha dimostrato di essere uno dei Grandi, uno di quegli scrittori che ha fatto la differenza, lasciando un’impronta indelebile del suo passaggio e se Fahrenheit 451 non è presente nelle vostre librerie, mi sento in dovere di consigliarne l’acquisto. Un libro così, in questo momento storico di crisi economica e abbrutimento sociale, dovrebbe essere nelle case di tutti gli italiani.
 
SCHEDA
Fahrenheit 451
Autore: Ray Bradbury
Editore: Mondadori
Edizione: 1953, pagine 210
 
a cura di Stefano Milighetti
 

Pensiero del giorno - David Gale 26/05/2015

Io vorrei sapere perché un giovanotto intelligente come lei, può commettere l'imperdonabile, fatale errore di venire qui a sfidare me... (David Gale in Re-Animator)
 
   

La Cisterna - Edizioni Dunwich


La redazione GHoST segnala La Cisterna il nuovo romanzo fanta-horror psicologico di Nicola Lombardi edito da Dunwich Edizioni per la collana Ritorno a Dunwich, un'opera magistrale assolutamente imperdibile.
Siamo in Italia, in un non precisato futuro. Una dittatura militare di estrema destra, denominata NOM (Nuovo Ordine Morale) è salita al potere, e sul territorio nazionale sono state edificate diverse Cisterne. Queste (tassativamente separate per uomini e donne) sono in pratica enormi silos in cemento e acciaio, entro i quali vengono gettati ad accumularsi, vivi, delinquenti d’ogni sorta condannati in seguito all’iter di ineffabili meccanismi giudiziari.
La narrazione segue il percorso, nell’arco di un anno, del giovane Giovanni Corte, selezionato per svolgere il servizio di sorveglianza presso la Cisterna 9. La ricompensa per un così lungo periodo trascorso ininterrottamente all’interno della struttura consiste in un cospicuo premio in denaro.
Giovanni deve curare diversi aspetti del suo nuovo titolo di Custode: seguire le registrazioni burocratiche, controllare il Pozzo (un grande schermo costantemente collegato con una videocamera per monitorare le condizioni interne dei condannati), accogliere gli Ospiti che giornalmente vengono “consegnati” da militari armati, effettuare tutte le operazioni richieste dal protocollo, le quali portano alla chiusura dei detenuti in una camera stagna, la Chiusa, prima di essere lasciati cadere all’interno della Cisterna.
Con cadenza quadrimestrale, inoltre, l’organizzazione del Campo 9 prevede che si proceda con la Bonifica, ovvero con l’immissione attraverso una serie di condutture di un certo quantitativo di acido solforico, affinché il livello interno di persone si ristabilizzi.
Durante questi mesi, Giovanni (che comunica con l’esterno essenzialmente per via telematica) ha a che fare con diversi personaggi, i quali spesso rivelano nature ambigue o conflittuali: il suo diretto superiore, il generale Stevanich; le varie Guardie di Scorta che si avvicendano alle Consegne; condannati particolarmente violenti; il dottor Nicastro, che si occupa del suo equilibrio psichico; Alex Allevi, un amico che forse lo tradisce…
Alla fine, dopo che il Campo 9 è divenuto obiettivo per un gruppo eversivo intenzionato – senza successo – a rovesciare il Nuovo Ordine Morale, già si pensa all’inaugurazione della Cisterna 10, ancora più sicura e maestosa.
Da gennaio a dicembre, “La Cisterna” segue il percorso anche interiore di Giovanni Corte, il quale muta gradualmente il proprio atteggiamento nei confronti del NOM (dapprima entusiasta) e delle proprie aspettative in generale nei confronti della vita.
Le speranze da lui nutrite lasciano a poco a poco il posto a una fredda, tragica disillusione. E non può più fare a meno di ascoltare il gelido, ineludibile richiamo della Cisterna…
La Cisterna, anno: 2015, pagine: 196, ISBN 978-88-9836-175-5, editore: Edizioni Dunwich.
Disponibile in versione ebook e stampata. Link di acquisto: http://tinyurl.com/q426z6o

Un assaggio del libro
Sotto di lui – a sei, sette metri di distanza – il primo strato di ospiti si aggrovigliava inquieto, ammasso instabile di corpi sofferenti, calderone di dolore, ginepraio di arti scomposti, spezzati, legati, fra cui germogliavano come laide fungosità volti attoniti e ferini. Dall’alto, la luce già un po’ più stanca colava a dipingere quel piccolo inferno con graffi pallidi e ingannevoli, in una continua metamorfosi che produceva un effetto di innegabile fascinazione. Inutile cercare di riconoscere qualcuno. Anche chi era stato scaricato quel giorno stesso già era perduto, inglobato, assorbito da quell’assurda, primordiale ameba umana.

L'AUTORE
Nato a Ferrara nel 1965, esordisce nel 1989 con la raccolta Ombre - 17 racconti del terrore. Si lega poi al movimento letterario romano Neo Noir e pubblica racconti, articoli e traduzioni su riviste e antologie per diver¬se case editrici.
Suoi sono i romanzi tratti dai film di Dario Argento Profondo Rosso e Suspiria per Newton & Compton. Collabora per diversi anni con il men¬sile di cultura fantastica Mystero; per le edizioni Profondo Rosso traduce i saggi Lovecraft e le ombre di F.B.Long e Edipo e Akhenaton I.Velikowsky, e il romanzo di S.Quinn La sposa del diavolo.
Tra le sue raccolte di racconti ricordiamo I racconti della piccola bottega degli orrori (Mondo Ignoto 2002), La fiera della paura (Mondo Ignoto 2004), Striges (Robin 2005) e La notte chiama e altre storie (2011, con Luigi Boccia), oltre al racconto singolo I burattini di Mastr’Aligi (Nero Press e-book 2014).
Pubblica inoltre i romanzi I Ragni Zingari (Edizioni XII 2010, poi Nero Press e-book 2014), con il quale nel 2013 vince il Premio Polidori, e Madre nera (Crac Edizioni 2013).
Per Dunwich Edizioni ha già pubblicato il racconto I buoni e i cattivi, compreso nell’antologia digitale Poker d’Orrore (2014). Per info e contatti: www.nicolalombardi.com
 

Pensiero del giorno - Anthony Hopkins 25/05/2015

Uno che faceva un censimento una volta tentò di interrogarmi. Mi mangiai il suo fegato con un bel piatto di fave e un buon Chianti. (Anthony Hopkins in Il silenzio degli innocenti)
 
 

Lo squalo bianco di Jack Leeder


Può un fantasma essere custode di un antico tesoro? E quale sarà il suo inconcepibile riscatto?
E’ una delle tante leggende che si tramandano nelle tormentate coste della Normandia, flagellate dal vento.
Alcuni studiosi inglesi arrivano per esplorare le caverne della spiaggia nord. In uno scenario suggestivo fatto di insenature rocciose, piccoli laghi, bui anfratti, scoprono una assurda iscrizione che nessuno è mai riuscito a interpretare.
Sfidando gli avvertimenti dei pescatori superstiziosi, gli studiosi decidono di esplorare proprio “quella” caverna. Dopo si pentiranno, ma sarà troppo tardi.
Nelle notti di temporale, a volte, le antiche leggende sembrano  rivivere. E i fantasmi ritornano dal passato per esigere un prezzo inconcepibile a una mente sana.
Un erotismo raffinato e la paura dell’ignoto accompagnano i lettori di questo fantastico racconto.
   
LA TRAMA
Una spedizione scientifica composta dal prof. Ghutner, Gordon Bell, Bob O’Mara ed Edith arriva sulle ventose coste della Normandia per esplorare le caverne della spiaggia Nord. Gli speleologi prendono alloggio nella taverna del villaggio e assoldano due guide: Lionel e Marius. Però quando arriva il momento di esplorare la “Grotta dello Squalo Bianco” Lionel e Marius si rifiutano di accompagnare gli studiosi.
La grotta è una apertura nera e carica di mistero inclinata verso il sottosuolo. Scalfite sulla roccia ci sono incise queste strane parole:
Dieci pinte di sangue umano
Il pianto di una vergine
Pane fatto con farina di teschi
Il giorno dopo Lionel accompagna gli studiosi da Dubois, l’unico uomo in paese che ha tentato di esplorare la grotta. Costui è un vecchio pescatore che vive con la figlia Minou, bella e scontrosa. Dubois, seduto su una sedia a dondolo con una corta pipa di terracotta fra i denti, incomincia a narrare una leggenda:
Un tempo il mare non arrivava fino a quel punto e nei pressi della caverna sorgeva un mulino a vento. Henriette Mussu, giovane vedova di un pescatore, tornava dal mulino dove era andata a prelevare farina. Lungo la strada Henriette vide arrivare una barca con alcuni brutti ceffi armati fino ai denti. La donna spaventata si nascose dietro una roccia. Gli uomini sbarcarono sulla spiaggia portando una cassa di legno ferrato. Dai loro discorsi Henriette capì che erano banditi e intendevano nascondere il loro oro. Con le funi calarono la cassa dentro alla grotta. L’uomo chiamato il Nero, che sembrava il capo, decise di mettere un custode del tesoro seguendo un metodo insegnatogli da uno stregone dei Caraibi. Scelse il bandito più sospettoso e gli fece ripetere le parole del riscatto:
“Il sangue di cinque uomini che abbiano violentato una vergine. Pane fatto con farina di teschi; tanti teschi quante sono le facce di un dado.”
Poi fece avvicinare l’uomo (il quale non riusciva a capire) al bordo della caverna e qui gli sparò. Il suo spirito sarebbe stato il custode del tesoro e se qualcuno fosse riuscito a rubarlo, lo spirito avrebbe preteso questo inconcepibile riscatto!
Il racconto del vecchio Dubois prosegue:
Prima di andarsene i pirati scoprirono Henriette, la violentarono e l’ultimo le piantò un coltello nel ventre. Ma Henriette non morì subito. Incise quelle parole sulla roccia e raccontò la storia ai suoi soccorritori, il mattino dopo.
Fin qui la leggenda. Poi Dubois riferisce la sua esperienza personale:
Durante l’occupazione alleata egli decise di esplorare la grotta, invasa dall’acqua di mare. Si calò sul fondo con un completo da sommozzatore. Scoprì il forziere sfasciato con monete e pietre colorate tutto intorno. Dubois incominciò a riempire un piccolo zaino e stava per risalire quando fu attaccato da un gigantesco squalo bianco. Dubois riuscì miracolosamente a salvare la propria vita abbandonando lo zaino che lo appesantiva. Riuscì ad emergere portando con sé una sola moneta d’oro. Adesso egli la mostra ai suoi ascoltatori: una antica Corona inglese del 1500. Ma  la figlia Minou sta soffrendo le conseguenze di questo fatto.
Il giorno seguente i membri della spedizione del prof. Ghutner decidono di esplorare la caverna sottomarina e qui scoprono che il vecchio Dubois aveva detto la verità. Trovano il suo zaino e vengono attaccati da un gigantesco squalo bianco.
Allora i tre uomini ritornano muniti di arpioni e dopo una lotta con lo squalo riescono a recuperare il tesoro.
Adesso il villaggio è in subbuglio. Tutti hanno paura della maledizione della leggenda.
A partire da questo momento, fatti terribili sconvolgono i membri della spedizione e gli abitanti del piccolo villaggio. É lo scatenarsi delle passioni umane oppure è lo spirito del pirata morto che esige il suo tremendo riscatto?
Dubois decide che è più saggio non conoscere la risposta a questo interrogativo e in una notte di tempesta ruba il tesoro maledetto e lo riporta nella caverna.
     
Jack Leeder, pseudonimo di Mario Pinzauti, siciliano (1930), Roma. Ottimo scrittore del terrore e soprannaturale, ha scritto con vari pseudonimi oltre 100 neri e gialli. I suoi capolavori: Vincolo Macabro, La Valle Dei Cento Morti, L’Amante Infernale, Le Piccole Gocce.
Ha una grande passione per le armi e dopo la chiusura dell’Editrice nel 1983 è diventato direttore di una scuola di tiro e Perito Balistico.
Copertina del Pittore Mario Caria di Roma.
   
SCHEDA
Lo squalo bianco
Autore: Jack Leeder
Editore: ERP Roma
Collana: Racconti di Dracula, prima serie, N. 39
Edizione: Gennaio 1963, pocket, pagine 126, Lire 150
 
a cura di Sergio Bissoli
 

Pensiero del giorno - Tim Robbins 24/05/2015

Ricorda Red, la speranza è una cosa buona, forse la migliore delle cose, e le cose buone non muoiono mai. (Tim Robbins in Le ali della libertà)
 
 

Incubo di Stefano Milighetti

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…manca l’aria, sento il peso dell’anidride carbonica che mi sfonda il petto. Il terrore imbottito, funi d’acciaio m’immobilizzano. E poi l’oscurità, matassa impenetrabile distorta dal suono affannato dei miei respiri convulsi. Sempre più rapidi, come la raffica singhiozzante di una mitragliatrice asmatica.
Provo a muovere la testa, a guadagnare qualche millimetro, ma sono del tutto immobile, rigido come un blocco di carne ghiacciata.
Avverto l’odore di terra bagnata. Percepisco un leggero spiffero d’aria che non riesco a respirare.
Per me solo esalazioni venefiche di legno marcio.
E il buio, sempre e solo buio. Tiranno inflessibile che non ammette opposizione di luce.
Prigioniero del mio corpo, del terrore, dell’orrore tra tutti gli orrori, prigioniero…
 
…è questo il mio incubo di sempre. Il delirio che da anni mi tormenta.
Sognato tre, quattro, mille volte a notte.
Un lungo ciclo infinito. Un’assoluta ripetizione dell’eterno uguale.
Ogni notte, da quando ho memoria.
La prima volta avevo sei anni e ricordo che crollai giù dal letto vittima di una crisi isterica senza precedenti nella storia del mondo.
Mia madre riuscì a calmarmi solo molte ore dopo, quando il sole aveva cominciato a fare capolino dalle colline intorno a casa. Non andai a scuola per una settimana, tanto era spaventato.
Le prime notti furono le peggiori, quando, vivendo quell’assenza onirica di luce e movimento, credevo che si trattasse della più cruda realtà. Che fossi imprigionato per l’eternità.
Poi, giorno dopo giorno, divenne chiaro che era solo un brutto sogno e che, anche se mi svegliavo con il cuore prossimo all’esplosione, non c’era nessun pericolo. Che ero al sicuro in camera mia. Che i miei genitori erano a pochi metri da me, pronti a proteggermi da ogni minaccia che avesse aggredito la mia vita.
Dopo una quindicina di giorni, il sonno non era più fonte di terrore e ben presto il sogno divenne qualcosa che cominciai ad accettare, come una inquietante tuttavia naturale parte della mia personalità.
Dopo un paio di mesi, non ci facevo più caso: sapevo quello che mi aspettava, ma sapevo anche che sarebbe finito al momento del risveglio.
Una solida certezza costruitasi notte dopo notte.
Una certezza che non avrei mai messo in discussione, perché si trattava di un sogno.
Un sogno, soltanto un sogno…

…una fitta lacerante al petto e al fianco. Sento odore di sangue ed escrementi. Un puzzo orribile che mi manda in subbuglio lo stomaco… sto per vomitare… nero, buio impenetrabile. Manca l’aria, sento il peso dell’anidride carbonica che mi sfonda il petto.
Il terrore imbottito, funi d’acciaio m’immobilizzano. E poi l’oscurità, matassa impenetrabile distorta dal suono affannato dei miei respiri convulsi. Sempre più rapidi, come la raffica singhiozzante di una mitragliatrice asmatica.
Provo a muovere la testa, a guadagnare qualche millimetro, ma sono del tutto immobile, rigido come un blocco di carne ghiacciata.
Avverto l’odore di terra bagnata. Percepisco un leggero spiffero d’aria che non riesco a respirare.
Per me solo esalazioni venefiche di legno marcio.
E il buio, sempre e solo buio. Tiranno inflessibile che non ammette opposizione di luce.
Prigioniero del mio corpo, del terrore, dell’orrore tra tutti gli orrori, io qui, prigioniero.
Avverto la consistenza del sogno, di tutti i suoi risvolti più terrificanti.
Cerco di aprire gli occhi, di emergere dall’incubo.
Di svegliarmi accanto a mia moglie che ogni mattina accoglie il mio risveglio con un sorriso caldo e pieno di dolcezza.
Irrompe un elemento nuovo, comparso per la prima volta dopo trent’anni d’impeccabile ripetitività: l’inconfondibile tamburellare della pioggia su una superficie di legno. È un suono lontano, sembra venire da un’altra dimensione, tuttavia lo sento distintamente. Provo a muovermi, ma un dolore acuminato al petto impedisce anche il più lieve dei movimenti. Un dolore vero, una sofferenza incendiaria che poco si addice alla fluida incorporeità dei sogni.
Emerge un altro suono.
Devastante, vicino, letale. Un boato che avvolge il mio mondo oscuro. Lo riconosco subito, senza la confortante illusione di potermi sbagliare: terra gettata sopra a un coperchio di legno. Terra a pochi centimetri dal mio viso.
Un altro boato, un altro ancora, poi inizia ad attutirsi, sempre più lontano. L’odore di terra bagnata mi ubriaca e mi stordisce.
Il lamento di una donna mi accarezza il viso come una scudisciata di spine.
Una donna disperata, distrutta dal dolore e poi ancora terra, tantissima terra sopra di me. Sopra la mia prigione di legno imbottito.
Capisco, è l’evoluzione dell’incubo, un inevitabile progresso maturato nell’arco di tre decenni.
È il sogno di sempre. Accanto a me so esserci il corpo di mia moglie. Caldo, sicuro, pieno d’amore. Un rifugio misericordioso lontano da tutte le paure che hanno segnato la mia vita.
Cerco di tornare alla luce.
Mi sforzo.
Uso tutta la tenacia di cui dispongo per far breccia nel velo di sonno che stringe il mio corpo.
Mi sforzo…
… mi sforzo…
 
… non riesco a svegliarmi e sopra di me, il suono ovattato di una montagna di terra che continua a cadere.
    

Pensiero del giorno - Jack Nicholson 23/05/2015

Tesoro, luce della mia vita. Non ti farò niente. Solo che devi lasciarmi finire la frase. Ho detto che non ti farò niente. Soltanto quella testa te la spacco in due! Quella tua testolina te la faccio a pezzi! (Jack Nicholson in Shining)
    
   

Gioventú cannibale - AA.VV.

Opera essenziale che nacque come prima antologia ufficiale dello splatterpunk italiano, proprio in risposta a Splatterpunk, l'antologia proposta dalla Mondadori nel 1995, dopo che per cinque anni aveva imperversato negli States senza che in Italia se ne fosse parlato minimamente se non su qualche fanzine doc o rilegato ad articoletti infimi su qualche insignificante rivista. Fu comunque apprezzabile lo sforzo della Einaudi che con alcune pubblicazioni (Stile Libero oltre a Gioventù Cannibale offrì altre cose  abbastanza interessanti) si buttò finalmente su di una letteratura a noi cara, dando così occasione al grande pubblico di avvicinarsi al genere. 
Tornando al libro, vediamo come autori del  calibro di Luttazzi (chi non conosce Daniele?), Pinketts e Alda Teodorani (bravissima e cattivissima) vengono affiancati ad Aldo Nove (che con G.C. ha fatto il suo esordio davanti alla grande Platea), Ammaniti e Brancaccio (che nel presentarsi in coppia ricordano i santoni dello splatterpunk Skipp and Spector) e poi Paolo Caredda, Matteo Curtoni, Matteo Galiazzo, Massimiliano Governi, Stefano  Massaron e Daniele Brolli il curatore di questa raccolta.
Essendo impossibile scrivere di tutti i racconti, citeremo solo quelli che a nostro avviso sono i migliori: il più bello in assoluto è Seratina di Ammaniti e Brancaccio, una storia psicopatica nella quale la fine non è certo una liberazione anzi…
Poi, di diritto, viene Lutazzi con Cappuccetto Splatter, un breve racconto assolutamente geniale quanto demenziale nella rivisitazione di Cappuccetto Rosso in versione, appunto splatter. Ed infine, nota di merito a Paolo Caredda con Giorno di paga in via Ferretto, altra storia incredibile e agghiacciante nella freddezza della prosa e dei pensieri dell' "esecutore". 
Racconti che ben poco hanno a che fare con spiriti, demoni o qualsivoglia misticismo, ma che affondano non solo le mani ma tutto il corpo nella materia e ci fanno vivere in maniera spietata le atrocità quotidiane che volutamente o inconsapevolmente si è portati ad ignorare ma che invece ci circondano e, anzi, fanno parte della nostra vita.
  
SCHEDA
Gioventú cannibale
Autore: AA.VV.
Curatore: Daniele Brolli
Editore: Einaudi
Edizione: Stile Libero 1996, pagine 204, Euro 8,50
ISBN: 978-88-0614-268-1

  
a cura di Massimiliano Medici
   

Pensiero del giorno - Michael Gross 22/05/2015

Avevamo cibo per cinque anni, mille litri di benzina, filtraggio dell'aria, filtraggio dell'acqua, un contatore Geiger, un rifugio atomico... e sotto terra... spuntano quei cazzo di mostri! (Michael Gross in Tremors)
 
   

Henry, pioggia di sangue di John McNaughton

Traumatizzato dall'infanzia vissuta con una madre crudele che lo obbligava spesso ad indossare abiti femminili e ad assistere alle proprie prestazioni sessuali, Henry Lucas, un robusto giovane dall'apparente aspetto quieto, che ora vive a casa con Otis, suo ex compagno di galera, semina morte e terrore per le strade di Chicago. Otis, che una notte ha assistito all'uccisione di due prostitute da parte di Henry, ha preso gusto a questi assassinii e comincia anche lui ad uccidere riprendendo il tutto con una videocamera rubata ad un ricettatore. Un giorno a casa di Otis giunge anche sua sorella Becky che presto s'innamorerà del silenzioso Henry...
Basato in parte sulle confessioni di un serial killer di nome Henry, arrestato, processato e condannato a morte per i delitti commessi, questo lavoro del 1986 di John McNaughton è uno dei ritratti più riusciti e realistici della figura del serial killer americano. Diretto con uno stile quasi documentaristico, il film si ispira alla storia vera dell'assassino Henry Lee Lucas (interpretato dall'ottimo Michael Rooker) che si incontra con un vecchio amico compagno di galera chiamato Otis a Chicago. Da qui ci viene mostrata la squallida esistenza di questi mostri metropolitani con le loro imprese sanguinarie tra ambienti degradati e violenza in crescendo. Storia cruda ed essenziale che non cerca morali o scontri tra bene e male, spietata e sgradevole che narra con estrema lucidità la brutalità di un mostro generato da mostri e che vive tra esseri non tanto diversi da lui, in una realtà di miseria e alienazione. La violenza e il sangue ci sono e certe scene sono davvero spietate ma a spaventare di più è l'alone di vuoto esistenziale e nichilismo che pervade i vari protagonisti della vicenda.
Film a basso costo che non venne distribuito prima del 1989 a causa dei ripetuti disaccordi con l'Organizzazione americana dei produttori cinematografici riguardo ai suoi contenuti violenti. Girato in meno di un mese con un budget di circa 110.000 dollari, ottenne pochi incassi, ma grazie alle sue particolari atmosfere cupe e malsane è diventato un classico tra i fan dei film horror, in particolare del sottogenere slasher, e può essere ormai considerato un cult. Duro, livido e senza speranza, da visionare con estrema cautela.
   
a cura di Red Scorpion
   

Pensiero del giorno - Keith Gordon 21/05/2015

...Non ti sei reso conto, che il mestiere del genitore, è un lavoretto da erode? (Keith Gordon in Christine - La macchina infernale)

 

L'eroe della strada di Walter Hill

L’esordio dietro la macchina da presa sembra anche a livello di scelte tematico/espressive evidenziare subito Walter Hill come un giovane regista abbastanza atipico rispetto ai colleghi emergenti o già affermati. Proprio come era stato per i suoi inizi di carriera, non avendo frequentato scuole di regia e non essendosi formato come cineasta intrecciando le proprie esperienze formative con quelle degli altri registi americani del nuovo corso. Non esce dalla factory di Roger Corman, ad esempio, cosa che riguardava molti registi affermatisi nei primi anni Settanta (da Scorsese a Bogdanovich a Jonathan Demme), e non ha alle spalle un apprendistato televisivo o teatrale. Nasce invece come sceneggiatore e condivide questo apprendistato con alcuni tra i migliori e più appartati registi del cinema americano (Cimino, Schrader). È pur vero che il debutto registico avviene sotto l’egida del produttore Lawrence Gordon, formatosi professionalmente proprio nella cormaniana American International Pictures. L’eroe della strada, in originale Hard Times (ma il titolo più azzeccato probabilmente sarebbe proprio quello iniziale e preferito dallo stesso regista, The Streetfighter, perché identifica chiaramente il protagonista e ciò che fa nel film, come vari titoli hilliani) s’inserisce in una tendenza cinematografica piuttosto in voga agli inizi degli anni 70, il racconto della storia americana e particolarmente del periodo della Grande Depressione e del roosveltiano New Deal. Si va da Paper Moon di Bogdanovich a Dillinger di Milius (prodotto sempre da Lawrence Gordon), da Il grande Gatsby scritto da Coppola e diretto da Jack Clayton a Come eravamo di Pollack. Curiosamente, però, più che questi titoli di cineasti che grosso modo possono essere considerati tutti appartenenti alla nuova Hollywood, L’eroe della strada ricorda maggiormente L’imperatore del Nord, di Aldrich: per la secchezza del racconto, per lo scontro fisico che caratterizza il plot e per un’evidente e non trascurabile assenza di maniacalità nostalgico/rievocativa. In Hard Times si limita a pochi tocchi, a un décor sobrio, del tutto appropriato a un periodo di crisi economica come quello dell’America degli anni Trenta. Non è granché interessato all’affresco storico; o meglio, sa che niente può essere più rappresentativo, per raccontare un’epoca, delle vicende di alcuni uomini che di tale affresco, seppur marginalmente, fanno parte.   
L’eroe della strada comincia con l’inquadratura in campo lungo di un treno merci che procede lentamente sul binario. A un certo punto, in prossimità di una biforcazione, vediamo il protagonista affacciarsi da uno dei vagoni e saltare giù, prendendo una direzione diversa da quella del treno. Tornando per un attimo al discorso sul regista esordiente “atipico”, l’inquadratura dall’alto della strada ferrata, nella quale vediamo Chaney dirigersi da una parte mentre il treno va dall’altra, parrebbe rappresentare il punto connettivo tra il pensiero di Walter Hill e l’azione del protagonista, in una sorta di identificazione tra il regista e il suo personaggio: vale a dire, una dichiarazione d’intenti da parte di Hill, la rappresentazione a livello diegetico della scelta di un percorso creativo personale. Oltre che per l’epoca in cui è ambientato, Hard Times per la verità non è un film che si differenzia a livello tematico da altri titoli americani di quel periodo in maniera così netta. Tratta di perdenti, di povertà, di sogni non facilmente realizzabili, di personaggi solitari, di sfruttamento, come in fin dei conti fanno Il re dei giardini di Marvin, Lo spaventapasseri, Electra Glide, Fat City, Non si uccidono così anche i cavalli?. Simile in questo a Peckinpah, Hill è interessato ai solitari, agli emarginati, ma come Peckinpah non ama però la rassegnazione, né l’alibi delle colpe sociali, che certo prende in considerazione ma contro le quali i suoi personaggi si scagliano a testa bassa. Chaney certamente non si fa molte illusioni, ma combatte e vince. Questo lo rende diverso dalla stragrande maggioranza dei personaggi del cinema americano degli anni Settanta. Si può dire che Hill adatti lo stile, tutt’altro che enfatico, del film al personaggio, taciturno e fatalista (“Non guardo mai oltre l’angolo della strada”, dice). Se si continua nel raffronto con un altro film sul pugilato (con i guantoni, in questo caso), Fat City di John Huston, si vedranno le differenze: in Huston vi è un’intera umanità dolente, con un destino probabilmente segnato, incapace di riscatto ma sopratutto vi è a livello di scelte narrative una dimensione psicologica dei personaggi che sfocia in alcune scene-madri del tutto assenti in L’eroe della strada, un aspetto social-melodrammatico dal quale Hill si terrà lontano per tutta la sua carriera. Per Hill non vi sono tanto le responsabilità della società quanto quelle dei singoli individui. Anzi, si può ben dire che già a partire da L’eroe della strada il regista operi una sorta di separazione tra i personaggi e il mondo. L’arrivo di Chaney a New Orleans ad esempio non lascia spazio a particolari digressioni ambientali. Il protagonista prende il caffè in un chiosco e da qui assiste all’arrivo di alcune automobili che entrano in un fabbricato. Hill non ci fa sapere se Chaney sia arrivato lì già sapendo cosa aspettarsi o se si tratti di una coincidenza. Poiché però da quel poco che trapelerà sulla sua vita nel corso del film sapremo che si mantiene con i combattimenti a mani nude siamo propensi a credere più probabile la seconda ipotesi. “L’esserci e l’agire della figura umana,” scrivevano Adelio Ferrero e Nuccio Lodato nel loro Castoro su Robert Bresson, “si offrono allo spettatore travalicando la mediazione della psicologia e della trama.”
Naturalmente ogni paragone tra il maestro francese e Walter Hill, anche solo per i materiali narrativi usati, sarebbe fuori luogo. Anche perché gli effetti conseguiti dall’opera di Bresson sono, per la profonda riflessione teorica e gli esiti artistici ottenuti, ben diversi da quelli del cinema hilliano. Il quale ha, quanto consapevolmente è difficile dirlo, contribuito senz’altro al diffondersi di un modo di fare cinema epidermico, più di sensazioni che di approfondimento. Con L’eroe della strada Hill mette a punto quella che diverrà una sua costante di scrittura, più volte rivendicata e ribadita. Un lavorare sui personaggi (o vogliamo, sempre bressonianamente, definirli “figure”?) mostrando solo le loro azioni, definendoli attraverso il loro movimento, il loro agire. Il movimento, inteso appunto come fare, è necessario all’uomo per realizzare se stesso ed è oltretutto alla base della storia americana (il movimento dei pionieri). L’epica western è fatta di personaggi in perenne movimento e lo stesso Chaney potrebbe tranquillamente essere un cowboy che, in una società in piena trasformazione, cerca un nuovo modo di sopravvivere. D’altronde, in filigrana, non è difficile pensare al film come alla metafora di un mondo destinato a scomparire, proprio come Chaney che, alla fine, si allontana nel buio lasciando soli Speed e Poe che, malinconicamente, lo rimpiangono. Che L’eroe della strada sia un western mascherato, è innegabile. La scena in cui Chaney, nella stanza, si alza dal letto e si prepara per l’ultimo combattimento, con la musica in sottofondo, ne è la prova lampante. I protagonisti di Hard Times sono in perenne movimento, paiono del tutto estranei a una vita civile, borghese. Il rapporto tra Chaney e Lucy s’interrompe proprio per questo motivo. La donna lo accusa di non essere un uomo stabile e sappiamo che in molto cinema western ma più in generale nel cinema americano classico la donna rappresentava la città, opposta all’uomo che invece anela i grandi spazi, lo spirito avventuroso e irregolare della frontiera. Anche nel suo delineare le figure femminili Hill dimostra subito la sua “formazione” western. Come scrisse Christian Metz la donna “esprime simbolicamente una brutta china che egli (l’uomo del west) finirà poi per non seguire, una tentazione di fissità sedentaria, di rinuncia all’estetismo delle cause perse e dei combattimenti polverosi.” Riguardo al discorso della sedentarietà, Lucy si lamenta con Chaney che “va e viene e non si ferma mai”. Della nuova società che si va formando, la donna sembra avere già capito le regole e i meccanismi. L’uomo no, e i tre personaggi maschili del film ne sono un chiaro esempio. È pur vero che siamo negli anni della Grande Depressione, manca il lavoro (è molto interessante il fatto che Hill ambienti i combattimenti in luoghi di lavoro dove non si lavora: fabbriche, porti, nei quali l’unico lavoro possibile è battersi a pugni nudi per guadagnare qualche soldo) ma è altrettanto vero che le figure maschili hilliane qui come nei film successivi sembrano allergiche al lavoro, nichilisticamente tendenti a rifiutarlo e a scegliere modi alternativi per vivere. L’ultimo avversario di Chaney si chiama Street e la strada si palesa fin da principio come luogo privilegiato, in Hard Times opposta appunto ai luoghi di lavoro (forse non casualmente il dottore si chiama Poe, come il grande scrittore americano morto per strada). Terreno di sconfinata libertà, di scontro, nel quale l’uomo si riappropria di se stesso e della sua natura, che pare, in fondo, essenzialmente ludica (i combattimenti di Hard Times sono solo i primi di una lunga serie di azioni e relazioni umane che assumono l’aspetto di una gara, di un gioco). Hill, come detto, non chiama in causa la Società, per giustificare o spiegare le azioni dei suoi personaggi. Tuttavia, vi sono dei riferimenti che suonano quantomeno allusivi. Dopo il primo incontro vinto da Chaney, Speed dice “il denaro si fa con il denaro”. Il denaro, in effetti, rappresenta la base di ogni rapporto che si instaura nel film. Si vive con i combattimenti, con le scommesse, con il gioco, con la prostituzione, tutte relazioni umane in cui avviene uno scambio di denaro. La vicenda sentimentale tra Charley e Lucy finisce in fin dei conti per la scarsa affidabilità (anche economica) dell’uomo. Probabilmente è in seguito a una tale riflessione che Chaney alla fine regala una parte dei soldi ai due amici. Ed è probabilmente questo il principale insegnamento morale che può venire da un film sui perdenti, che sono tali solo se vincono non seguendo le regole della società (che insegna ad accumulare denaro eccetera). Ma è anche una dichiarazione d’intenti registica, che unitamente alla scelta di girare un film sul pugilato a “mani nude”, esprime la volontà di operare per sottrazione, facendo a meno del superfluo (come Chaney può tranquillamente fare a meno dei soldi in più), eliminando gli orpelli. Semplificando la messa in scena anche a rischio di sembrare semplicistico.
  
a cura di Roberto Frini