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The Departed di Martin Scorsese

Boston. Billy Costigan (Leonardo Di Caprio) e Colin Sullivan (Matt Damon) sono due giovani che riescono a terminare a con successo l’accademia di polizia. Il primo deve convivere con uno scomodo passato (suo padre era stato coinvolto in alcune faccende con la malavita) che gli procurerà non pochi problemi all’interno della squadra; il secondo, di famiglia povera, viene tirato su fin da ragazzino dallo spietato boss irlandese Costello (Jack Nicholson). Per questi motivi Colin diventerà l’infiltrato del suo mentore criminale all’interno della polizia (i suoi modi gentili e i suoi elevati punteggi agli esami lo rendono insospettabile); Billy invece (grazie alla fedina sporca di suo padre, conosciuto dalla malavita) diventerà l’infiltrato della polizia all’interno del clan mafioso di Costello (indagato per il furto e per il commercio illecito, con una banda di cinesi, di alcuni cip elettronici indispensabili per la guida dei missili Cruise).Il giovane tenterà, così, di ricostruirsi una reputazione che riesca finalmente a separarlo dagli errori del suo genitore. Giochi di spionaggio, intrecci amorosi, colpi di scena, attori in gran forma e adrenalina alle stelle per tutti i 150 minuti di proiezione, sono gli ingredienti del film giudicato il migliore dell’anno ai Premi Oscar 2007.
E finalmente il gran giorno arrivò: Martin Scorsese Premio Oscar alla regia. Certo, sono arrivati anche i premi come miglior film, miglior montaggio (Thelma Schoonmaker) e miglior sceneggiatura non originale (William Monahan ha attinto dal film hongkonghese Infernal Affairs). Ma la notizia è stata ovviamente l’illustre prima volta del regista Newyorkese,  pilastro della New Hollywood, che nella sua pluridecennale carriera aveva solamente collezionato una sfilza di nomination, divenendo così il protagonista di un’inspiegabile e ridicola “ingiustizia cinematografica”. 
Senz’altro un bel film, summa dei topoi scorsesiani (protagonisti disadattati e sopra le righe; dialoghi che colpiscono, così come la violenza genuina), con autocitazioni non da poco (il cinema porno e i fumi di una Boston dal retrogusto newyorkese, memori di Taxi Driver; le flessioni in cella di Di Caprio, omaggio a De Niro ne Il promontorio della paura).
 
Una pellicola solida, quadrata, avvincente ed emozionante che tiene incollati alle poltroncine dall’inizio alla fine. Ma… Sì, c’è un MA. Viene un po’ da storcere il naso pensando che l’Oscar sia arrivato proprio con The Departed e non con reali colpi di genio innovativo come Taxi Driver o con saggi di “maestria registica” come Quei bravi ragazzi  o Il promontorio della paura (so di dare giudizi un po’ facilotti, ma è quel che penso). The Departed è oggettivamente un prodotto di grande qualità, ma a tratti Scorsese sembra esasperare il suo stesso stile con scene di violenza talmente forti e dialoghi così deliranti che emerge un senso del grottesco di Tarantiniana memoria. E Jack Nicholson si trova perfettamente a suo agio in questo folle turbine di spie, sospetti e sparatorie, nei panni di un Costello che incarna tutta la follia dei suoi personaggi più celebri, da Jack Torrance (Shining, 1980) a Jocker (Batman, 1989). Peccato che anche lui, con la sua bella maglietta con scritto “Irish” e le mani sozze di sangue raggrumato, sia un po’ la caricatura di se stesso. Chi invece si comporta alla grande è la coppia Damon/Di Caprio, due facce della stessa medaglia, così simili, ma nel contempo così diversi: spietato dalla faccia d’angelo il primo; tormentato, ma inarrestabile il secondo. Da sottolineare una prestazione eccellente di Martin Sheen (nei panni del paterno capitano Queenan) e di Alec Baldwin (il capitano della Special Investigation Unit) un po’ appesantito, ma sempre d’effetto.
 
La colonna sonora è azzeccatissima e vanta anche la presenza  della mitica Let it bleed dei Rolling Stones, canzone dal titolo emblematico che descrive al meglio, in chiave sonora, l’atmosfera Hard Boiled del film.
 
Giudizio: ottimo.

The Simpsons - Il Film di David Silverman


A Springfield i Green Day tengono un concerto rock su un palco galleggiante sul lago della città. Alla loro richiesta di un minuto di raccoglimento per riflettere sull’ambiente e sulle condizioni disastrose del lago, vengono sommersi di fischi e spazzatura in grande quantità, tanto da farli inabissare nelle acque.
Durante il funerale della band Nonno Simpson è preda di convulsioni allucinanti e mentre si rotola per terra pronuncia frasi sconnesse come “terribile sciagura”,  “mille occhi”, “coda attorcigliata”, “intrappolati per sempre”. Grazie ad una convincente campagna ambientalista, Lisa riesce a convincere il sindaco a recintare il lago, in modo tale da impedire lo scarico di rifiuti in esso. Intanto Homer salva dalla macellazione un maialino che interpretava uno spot con Krusty il clown e riesce a convincere Marge a tenerlo in casa. Spider Pork (questo il nome scelto da Homer) inizia ad essere uno della famiglia e viene trattato da Homer come fosse suo figlio (per la gelosia di Bart che inizia a frequentare Ned Flanders come papà alternativo). Il maialino, però, “inquina parecchio” e Homer è costretto a svuotare il silo pieno di escrementi nella discarica della città. Mentre è in coda per aspettare il suo turno, riceve una telefonata da Lenny che gli riferisce un fatto pazzesco: un negozio in città sta regalando ciambelle. Per Homer la tentazione è troppo forte: lascia perdere la coda, svuota il contenuto del silo nel lago (facendo aumentare considerevolmente i livelli di inquinamento) e va ad abbuffarsi. Intanto l’Ente per la Protezione Ambientale (EPA) viene a contatto con uno scoiattolo che accidentalmente è caduto dentro il lago e che dopo la caduta presenta una serie di anomalie (più di venti occhi e altre deformazioni). Il caso viene sottoposto all’attenzione del presidente degli Stati Uniti Arnold Schwarzenegger che decide, consigliato dal folle capo del dipartimento Russ Cargill, di isolare Springfield dal resto della nazione mediante un’enorme cupola di vetro. I poveri cittadini rimarranno intrappolati senza acqua, cibo ed elettricità. Cosa ne sarà della città di Springfield? Come farà Homer a rimediare al disastro che lui stesso ha combinato? Tornerà tutto normale? E cosa significano le folli frasi del Nonno?

  

E finalmente il gran giorno arrivò: la famiglia giallognola più famosa al mondo nelle sale cinematografiche. Un’attesa spasmodica fatta di voci, indiscrezioni, trailer ufficiosi e video che circolavano senza controllo su internet. 
Ma chi si aspettava un’opera grandiosa, fatta di spettacolo e colpi di scena sarà rimasto un po’ deluso perché quello che si ha di fronte sembra essere solo uno dei tanti episodi della serie, solo più allungato e animato con più cura (un fatto che Homer non manca di sottolineare quando, rivolgendosi al pubblico in sala, si chiede come mai la gente paghi per vedere uno spettacolo che può già godersi gratis a casa propria…)  Naturalmente questo non significa che il film sia noioso, anzi, durante le quasi due ore di proiezione si assiste ad una serie di situazioni comiche degne del brio delle prime puntate della serie (una su tutte la Spider Pork mania, nata dalla canzoncina di Homer: “Spider Pork, Spider Pork, il soffitto tu mi sporc…”che in rete ha spopolato). Per il resto (e mi rivolgo a chi come me conosce a memoria ogni episodio) nulla di esageratamente diverso: ci sono tutti, dal Sig. Burns a Boe, da Krusty il clown all’Uomo-Ape, da Kent Brockman al direttore Skinner, ma l’intera vicenda ruota attorno principalmente alla famiglia Simpson, sia che si parli del rapporto in crisi tra Bart e Homer, sia che si parli delle battaglie ambientali di Lisa o dei disastrosi guai combinati dal capo famiglia, che provocano la devastazione della città. I Simpson, insomma, con tutta la trafila di commenti, suggestioni, critiche più o meno sensate e ricordi che questo nome riesce ad evocare ogni volta. E gli incassi parlano chiaro: The Simpsons si è piazzato in terza posizione, preceduto soltanto da “colossi del botteghino” come Harry Potter e Transformers. Un risultato che dimostra quanto questa serie ormai ventennale (in Italia, sbarcò qualche anno più tardi, però) sia ancora amatissima e molto seguita. 
Si parla già di un sequel, ma restano solo delle voci. Sono sotto gli occhi di tutti, invece, le puntate inedite che Matt Groening e compagni sfornano ogni anno e che tengono in vita la famiglia più pazza d’America con vicende allo stesso tempo vere e allucinanti, sempre sul filo del non sense e del delirio totale.

  
Da segnalare, nel film, le musiche suggestive e “goticheggianti” di Danny Elfman (il mitico “musichiere” di Tim Burton, per intenderci) che è riuscito a rendere epiche le scene più drammatiche (sebbene brevissime) grazie alla sua caratteristica imponente malinconia, a tratti tetra e profondamente suggestiva.
 
Giudizio: molto buono. 

a cura di Giorgio Mazzola

Effetto V-day: internet, libertà di stampa e censura


Il V-Day, l’8 settembre del Vaffanculo-Day,  si annuncia come una delle manifestazioni popolari più attese degli ultimi anni. Una marea di persone che comunicano tramite internet, che non appaiono in tv né sui giornali, una massa indecifrabile, incalcolabile, che fa paura ai politici, un evento snobbato dai mezzi di informazione che comincia ad essere seriamente temuto.
Se da una parte l’effetto V-Day conferma con piacere la potenza di internet e del suo inevitabile “passaparola”, dall'altra non si può certo stare allegri nel constatare come la stampa e i media hanno reagito a questo evidente caso con il loro silenzio di tomba su tutti i fronti. Eppure i numeri parlano da soli: basta farsi un giro su Google con la parola chiave v-day o verificare le statistiche direttamente sul blog di Beppe Grillo (il comico che ha lanciato l’idea del V-Day) per capire la portata di questo evento. Possibile che l’informazione (quella seria) in Italia sia definitivamente defunta? Ora abbiamo la conferma che l’intera classe giornalistica è assoggettata ai poteri forti. La libertà di stampa in Italia sembra davvero non esistere più e a quanto pare l’informazione vera (quella spesso censurata) ora passa solo più per internet.

Non sono i popoli a dover aver paura dei propri governi, ma i governi che devono aver paura dei propri popoli. (Thomas Jefferson) 

Grindhouse - a prova di morte di Quentin Tarantino


Stuntman Mike (Kurt Russel) è uno stuntman in pensione con l’hobby di girovagare con la sua Chevrolet Nova “a prova di morte” (una macchina da set super rinforzata), alla ricerca di giovani ragazze da massacrare mediante incidenti stradali da lui stesso provocati. Una notte incrocia Jungle Julia (la più celebre DJ di Austin) e le sue compagne di viaggio, Shanna e Arlene, al Texas Chili Parlor, un locale gestito dal folle Warren (Quentin Tarantino). Il loro destino è segnato.
Passa più di un anno. Stuntman Mike è ancora alla ricerca di prede giovani e belle, ma quando prenderà di mira Zoe, Kim, Abernathy e Lee (dei veri ossi duri), le cose si metteranno davvero male per lo schizofrenico omicida. Anche Zoe e Kim sono, infatti, delle famose controfigure a Hollywood e non si arrenderanno tanto facilmente agli attacchi del loro killer.
  
Visto lo scarso successo dell’esperimento del “doppio show”  voluto da Tarantino e Rodriguez  per omaggiare una  consuetudine tipica dei b-movies americani degli anni ’70 (originariamente, infatti, il film era composto da due episodi distinti: Deathproof, diretto da Tarantino e Planet Terror, diretto da Rodriguez) il buon Quentin decise di allungare il suo episodio fino a farlo diventare un film vero e proprio, con il nuovo titolo di Grindhouse - a prova di morte.
E il risultato qual è? Beh, è un film di Tarantino in cui  Tarantino si diverte, e come spiegazione potrebbe già essere abbastanza esauriente. Grindhouse è una pellicola che esprime al massimo la vocazione manieristica del folle regista di Knoxville: se con Kill Bill aveva omaggiato i film giapponesi di samurai (i chanbara) e quelli cinesi di arti marziali (i wuxiapian e i Kung fu movies), con Grindhouse - a prova di morte il tributo è ai b-movies degli anni ’70 e in particolare proprio ai Grindhouse, il termine che contraddistingueva gli exploitation-movies, cioè i film cosiddetti “spazzatura” (horror, splatter, kung fu, thriller, spaghetti-western, sexploitation…). E infatti Tarantino realizza una pellicola che in tutto e per tutto è immersa nella tipica atmosfera grezza e violenta di quei generi che oggi verrebbero definiti con la magica formula “per gli appassionati”. 
  
E se il manierismo nei confronti di un genere low cost (eufemismo) raggiunge vette mai viste (i voluti  errori di montaggio che mozzano i dialoghi; gli improvvisi viraggi di colore, compresi degli inspiegabili pezzi in bianco e nero e i graffi sulla pellicola), non sono da meno le assurde “tarantinate”: citazioni riguardo i suoi film preferiti (più o meno esplicite) sparse in lungo e in largo, sia sulla scenografia che nei dialoghi (se siete curiosi Wikipedia ne fa un lungo elenco); dialoghi che qui raggiungono un livello di non-sense talmente assurdo che Pulp Fiction al confronto inizia a sembrare “ordinario”: interminabili piani sequenza - parlo di minuti… - in cui le ragazze dibattono di argomenti profondi quali sesso, motori, alcol e droga e, come già detto prima, di liste interminabili di film sconosciuti e improbabili che sembrano usciti dalla memoria di un cinefilo psicopatico - scusa, Quentin…). E in quanto al finale…
  
Insomma, non sarà la pellicola migliore del 2007, ma posso garantire che le forti emozioni sono assicurate, soprattutto per gli inseguimenti in automobile davvero “alla vecchia maniera” con stuntmen che rischiavano il collo (come Zoe Bell, qui nel ruolo di se stessa, che offre una performance spettacolare sul cofano di un’auto da corsa). E poi un Kurt Russel davvero in forma, nonostante l’età, rude come non lo si vedeva da tempo. Segnalo anche una bella prova delle bellissime Rosario Dawson e Vanessa Ferlito (quest’ ultima già vista nella serie CSI - New York).
  
Colonna sonora d’eccellenza che vanta estratti da Ennio Morricone (omaggio agli spaghetti- western) e T-Rex, per citarne alcuni.
 
Giudizio: molto buono. 

a cura di Giorgio Mazzola

Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders


Damiel e Cassel sono due angeli invisibili (ma non per i bambini) che scendono a Berlino per osservare gli umani e prendere appunti sui loro comportamenti e sui loro pensieri e tentando di dar loro conforto nei momenti difficili. Assieme ad altri angeli presenti nella città, possono provare solo cose astratte, senza sapere cosa siano i colori, i gusti e gli odori. La mancanza di queste capacità li rende un po’ malinconici e incompleti (sebbene in teoria siano esseri perfetti). Un giorno Damiel, mentre è impegnato in una delle sue osservazioni, incontra Marion, una trapezista di un circo sull’orlo della bancarotta. L’angelo si innamora perdutamente della ragazza (soprattutto dopo aver ascoltato i suoi pensieri per lungo tempo) e decide di diventare un umano per poterla incontrare. Si rivolge allora a Peter Falk (nel ruolo di se stesso) che si trova a Berlino per girare un film. Anche Peter, infatti,  è stato a sua volta un angelo che ha deciso di diventare un umano ed è ben lieto di poter aiutare qualcuno che ha deciso di compiere lo stesso suo grande passo.
  
Vincitore del premio per la miglior regia al festival di Cannes 1987, Il cielo sopra Berlino è il film che Wenders gira al suo ritorno in Germania dopo otto anni passati negli USA.
E se l’intento era quello di tornare a girare una pellicola che fosse “europea” (ovvero, più artistica che commerciale, tanto per giocare un po’ con gli stereotipi) non ci sono dubbi che il regista tedesco ci sia riuscito (e infatti si storce un po’ il naso pensando al remake City Of Angels del 1998, bel film, ma assolutamente sempliciotto e strappalacrime).
  
Tematiche e dialoghi parzialmente ispirati alle poesie di Rainer Maria Rilke, nelle quali, secondo Wenders, si avvertirebbe la presenza degli angeli; dialoghi scritti assieme al romanziere e drammaturgo d’avanguardia Peter Handke; e poi Berlino, simbolo, nel bene e nel male, dell’Europa del Ventesimo Secolo e che, nell’anno di realizzazione di questo film (1987), sta ancora vivendo l’assurdità del muro che la separa in due.  
  
E infatti è una Berlino triste, assente, vuota, con gli abitanti che si aggirano sconsolati e un po’ affranti per le sue vie decadenti. La vita, il cuore pulsante di questa metropoli sembra trovarsi, infatti, non in superficie, ma sottoterra, nei locali underground in cui i complessi noise-rock (come “Nick Cave And The Bad Seeds”) si esibiscono in quella che non è musica, ma l’espressione di un sentimento di dolore che viene dal profondo. A tutto ciò si aggiunga che tutta la vicenda è osservata dal punto di vista dei due angeli, capaci di provare solo cose astratte: tutto in bianco e nero, quindi, tanto per accentuare il senso di immaterialità che permea tutta l’ambientazione. Solo quando Damiel diventerà uomo allora il film sarà a colori (sebbene durante la prima parte in bianco e nero ci fossero dei brevi flash a colori, in corrispondenza dei primi vagiti dell’animo di Damiel che voleva assolutamente risvegliarsi).
  
Più che un film ispirato alla poesia, Wenders sembra voler mettere in scena una poesia figurata, una poesia per immagini. Perché a parlare sono soprattutto le riflessioni interiori delle persone che ogni giorno si trovano a dover affrontare la vita, che compiono azioni normali, ma che in realtà sono sempre delle vere e proprie imprese. Non ci rendiamo mai conto, infatti, che vivere la vita giorno dopo giorno è un’impresa assolutamente eroica, che richiede impegno e dedizione; e quante volte siamo sul punto di arrenderci? Quante volte siamo tentati di mandare tutto all’aria? Cos’è che ci fa perseverare e ci fa guardare sempre avanti? Forse proprio quegli angeli che, come in questa pellicola, scendono sulla Terra e ci abbracciano ogniqualvolta ci sentiamo abbandonati, a un passo dalla disperazione. Gli stessi angeli che urlano disperati quando qualcuno decide di gettare la spugna, mettendo fine alla propria esistenza.
  
Ottima l’interpretazione di Peter Falk nel ruolo di se stesso, in un film che riesce ad assorbire persino la sua carica umoristica, rendendola malinconica, ma pur sempre rassicurante. Nel film l’attore è a Berlino per girare una pellicola sul Nazismo. Un film che interessa dunque la memoria della città. Memoria cittadina incarnata anche dal vecchio Omero, personaggio che si aggira stanco per le vie disastrate di una Berlino che non ha più nulla del suo antico aspetto: una città che insieme alla sua memoria ha perso forse anche la sua identità. Una perfetta fotografia del senso di vuoto che si poteva respirare negli anni della Guerra Fredda, con la gente che guardava con odio quel muro così alto, ma che forse non si ricordava bene il perché della sua presenza. E allora Marion, forse, aveva ragione: “Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia?”.
 
Giudizio: ottimo.  

a cura di Giorgio Mazzola

City Of God di Fernando Meirelles


Tratto dal romanzo di Paulo Lins, City Of God  racconta la storia della favela “Cidade de Deus” alla periferia di Rio de Janeiro, dagli anni ’60 agli anni ’80. Da una parte il lento e inesorabile decadere di un quartiere negli abissi della violenza e della corruzione, dall’altra il progressivo affermarsi della banda del folle Zè Pequeno, per il controllo della droga e delle armi in tutta la zona.
Il giovane e tranquillo Buscapè cresce in questo inferno coltivando la sua passione per la fotografia, documentando le fasi della decadenza del quartiere attraverso la sua testimonianza. E’ sua la voce fuori campo, infatti, che accompagna tutto il film e che descrive con calma e naturalezza la spaventosa serie di orrori che si presentano nel corso di tutta la vicenda.
  
Miglior montaggio ai Bafta Awards 2003 a Daniel Rezende e altre nominations (tra cui “Miglior film straniero” e “Miglior regista” a Fernando Meirelles) agli Academy Awards 2004.
City Of God è senz’altro un film brillante, reso ancora più avvincente dal taglio documentaristico che lo contraddistingue, con una presenza notevole della macchina a mano che si lascia andare a zoommate violente alla Von Trier. D’altronde la vicenda narra di fatti realmente accaduti e la prova di ciò è l’intervista a Manu Galinha (il rivale di Zè Pequeno) durante lo scorrere dei titoli di coda. E non potevano mancare gli attori non-professionisti, per dare quel tocco neorealista al tutto (scusate la bestemmia), come se per descrivere al meglio l’orrore fosse necessaria l’imperfezione della performance (tentativo fallito, perché gli attori sono davvero talentuosi). 
  
Eppure, di fronte a cotanto realismo, ci si rende conto che a, farla da protagonista, sono proprio le scelte di montaggio vincitrici del premio sopra  citato. Innanzitutto l’inizio a partire dall’ultima sequenza, la quale però si ripresenta al termine del film (una specie di medias res riproposto). Presenza di flash back, che diventano dei veri e propri percorsi alternativi all’interno della trama principale e che sono ulteriormente sottolineati dall’uso sapiente della fotografia (toni più caldi per i ricordi; toni più freddi per le scene violente ambientate nel “presente”).  E infine la magistrale capacità, in questo film, nel considerare  il montaggio  come linguaggio fatto con le immagini. Se a parlare, infatti, sono la violenza e la degradazione, il regista traduce queste caratteristiche con un linguaggio visivo nevrotico, violento, con movimenti di macchina a schiaffo che sembrano trascinare lo spettatore per i capelli ora di qua, ora di là.
  
La violenza, innanzitutto. Perché al di là della storia di Buscapè che sogna di diventare un fotografo professionista; al di là della vicenda di Zè Pequeno che diventa il re della favela, allontanando da sé tutti i suoi amici e attirando una quantità d’odio assolutamente spaventosa; al di là della vicenda di Manu Galinha che da vittima diventa carnefice senza pietà, ad una velocità impressionante. Al di là di tutto ciò c’è sempre un elemento che rimane centrale, fisso, assolutamente incancellabile: la violenza. Perché questa non è solo la storia del degrado di un quartiere, ma è l’analisi impietosa di come la violenza non solo riesca ad intaccare la società umana, ma anche di come riesca a generare mondi alternativi in cui lei stessa è la legge; mondi in cui non fa impressione vedere dei bambini con le pistole in mano che si mettono a sparare alla gente come se niente fosse; mondi in cui il detto “oggi a te, domani a me” diventa un tarlo che non fa dormire la notte e che spinge anche i più onesti a trasformarsi in assassini per non soccombere. E Meirelles descrive tutto ciò in maniera pulita, fredda, senza troppa enfasi nell’illustrare il circolo vizioso in cui tutti i protagonisti entrano,  e da cui non tentano nemmeno di uscire. Perché tanto a vincere è sempre lei, la stessa violenza che nasce come se niente fosse e che investe tutto e tutti con una semplicità disarmante. E l’ultima scena è davvero la più emblematica nel descrivere tutto ciò.

Giudizio: ottimo. 

a cura di Giorgio Mazzola

Transformers di Michael Bay

La terribile guerra tra gli Autobots e i Decepticons si sposta dal pianeta Cybertron al pianeta Terra, a causa della caduta del cubo di Energon (un gigantesco cubo che può infondere la vita ai robots) dallo spazio al Polo Nord. Viene qui ritrovato, alla fine dell’ ‘800, dall’esploratore Witwicky, il quale viene a contatto anche con il capo dei malvagi Decepticons,  Megatron.
Si passa ai giorni nostri. Una base militare americana in Medio Oriente viene attaccata da dei veicoli da guerra in grado di trasformarsi in giganteschi robots antropomorfi. Il ministero della difesa è in allarme.
Intanto Sam, un ragazzino sfigatello del liceo, compra con l’aiuto del padre la sua prima automobile da un rivenditore di auto usate. Ben presto si accorgerà che quella non è una semplice auto da corsa sgangherata, bensì un Autobot giunto sulla Terra prima dei suoi compagni. Ben presto, infatti, arriveranno tutti gli alieni “buoni” capeggiati da Optimus Prime, con lo scopo di incontrare proprio il giovane Sam Witwicky, pro-pro nipote dell’esploratore che trovò Megatron. Il giovane custodisce un oggetto ereditato dal lontano parente che consentirebbe agli Autobots di sconfiggere per sempre i malvagi Decepticons, evitando così anche l’estinzione degli umani, abitanti di un pianeta divenuto il teatro di una guerra “civile” tra esseri alieni.
  
Di fronte ad un film del genere mi trovo costretto a dividere in due parti la mia personalità.
  
Giudizio razionale:  regia di Michael Bay (Armageddon, Pearl Harbor, The Island),  grande amico di effetti speciali e storie epiche. E anche qui rimane fedele a se stesso, mettendo in scena un fantascientifico quasi-disaster movie come solo il miglior Roland Emmerich (Stargate, Indipendence Day) avrebbe saputo fare. Pellicola imponente, ritmo intenso ed effetti speciali grandiosi: Bay non sembra aver sbagliato nulla, non ci sono sbavature, né cali di tensione e, scusate la terminologia banale, i robot sembrano proprio veri. Peccato i pregi siano solo questi. 

Per il resto credo che, per tutti i 140 minuti, si assista  ad un uno dei film con la maggior presenza di stereotipi mai visti prima d’ora. A cominciare proprio da quelli “Emmerichiani”: alieni dallo spazio; invasioni catastrofiche; coinvolgimento dei vertici governativi americani (che si scoprono sempre essere dei delinquenti, ma in fondo dei simpaticoni - dato che sono pur sempre americani…); partecipazione involontaria di un civile imbranato, ma con quel “qualcosa” che lo rende speciale; il capo dei militari coraggiosissimo e con famiglia a carico. Ma non ci si ferma qua: dove lo mettiamo lo studentello sfigato (con i genitori strampalati) che sogna di conquistare la più bella della scuola (e che forse ci riesce)? E che dire di quella profonda amicizia che si instaura tra il giovane terrestre e l’alieno buono (il quale poi viene trattato male dagli stupidi e cattivi umani- con tanto di scena al ralenti e musica struggente)? C’è un certo retrogusto di E.T. (e guarda caso Spielberg è produttore), ma anche riferimenti espliciti a Il gigante di ferro (Brad Bird, 1999) in particolare quando Sam viene salvato dalla “manona” Optimus Prime (ma cosa ci andava a chiamarlo Commander, come qualsiasi italiano si aspettava?)  in una delle innumerevoli scene d’azione. E poi quella insopportabile e onnipresente ironia di bassa lega elevata qui all’ennesima potenza e ossessivamente rimarcata da situazioni e dialoghi che neanche il peggiore John Spartan (Stallone in Demolition Man, 1993) avrebbe potuto sfoderare. E per ultimo, ma solo perché voglio fermarmi, quel gusto tutto americano di tingere col manicheismo anche la più banale delle storie (è impressionante quanto siano cattivi e vuoti i Decepticons); e mai che il governo americano manchi di schierarsi con i buoni (ma forse qui sto un po’ esagerando…). Forse ho il dente avvelenato per aver visto John Turturro ridotto ad un pagliaccio, recitando in una parte che cancella tutte le sue ottime performance degli ultimi 10 anni.
 
Giudizio affettivo: sono nato nel “lontano” 1983 e, oltre ad essere stato investito dallo tsunami degli anime giapponesi (non quello disordinato degli anni ’70, ma quello pianificato e consapevole del decennio successivo) ho assistito anche alla nascita di prodotti nati dalla collaborazione del genio rivoluzionario nipponico e quello un po’ più bacchettone americano. I Transformers fanno parte di quest’ ultimo gruppo. La cosa certa è che quand’ero bambino andavo in estasi guardando automobili ed elicotteri che improvvisamente mutavano forma divenendo dei robottoni con armi straordinarie (e qui devo  complimentarmi con Bay per aver recuperato l’esatto suono metallico che accompagnava le trasformazioni dei protagonisti). E ovviamente anch’io ho giocato con qualsiasi giocattolo nato all’indomani della serie a cartoni, versando lacrime amare perché Commander costava troppo e quindi sarebbe rimasto sempre e solo un semplice desiderio d’acquisto irrealizzabile. Di fronte a premesse di questo tipo non posso far altro che ringraziare Michael Bay e la Dreamworks per aver portato a compimento un’opera che avrà sicuramente risvegliato il bambino nascosto in molti di noi e che avrà tenuto col fiato sospeso anche i meno influenzabili. Andando contro le mie stesse parole devo dire che è bello, ogni tanto, assistere alla lotta tra i buoni e cattivi, con i cattivi che perdono perché se lo meritano e con i buoni che vincono (e che magari poi non se ne vanno mai via). E devo ammettere che mi è venuta la pelle d’oca nel vedere l’alieno anonimo che prendeva le fattezze del mitico (e un po’ tamarro) TIR rosso e blu, diventando il grande Commander (Optimus Prime mi viene difficile). Se alle ragioni del cuore, poi, uniamo un neutrale apprezzamento per quella che forse è una delle vette della storia del cinema per quanto riguarda gli effetti speciali, il giudizio per questo film non può che essere positivo.  Peccato solo che ci sia carenza di campi lunghi: i robot sono  inquadrati, a mio parere, quasi sempre troppo da vicino, facendo perdere un po’ la visione d’insieme e generando nel contempo una  sorta di confusione affannosa (il tutto acutizzato dal fatto che le scene d’azione sono tutte riprese con la macchina a mano, un clichè a cui ormai nessuno rinuncia perché dà quel senso di realtà, a mo’ di reportage di guerra – vedi Salvate il soldato Ryan, The Blair Witch Project, 24 e simili – difficilmente riproducibile con altri espedienti tecnici).
 
Che lo abbiate odiato o lo abbiate amato, in ogni caso questo film vi avrà in qualche modo colpito (o al cuore o sotto la cintura). E verrà spontaneo lasciarsi trascinare dalla foga dei sentimenti, sia che lo eleviate ad uno dei più bei film degli ultimi anni, sia che lo gettiate nel fango (esattamente le cose che ho fatto in questa recensione).
  
Però i Linkin Park, come sigla per i titoli di coda, potevano anche evitarseli…
 
Giudizio: buono.

a cura di Giorgio Mazzola

Il sogno sciamanico

Gli sciamani hanno la capacità di vivere in un perenne stato di sogno all’interno di un perenne stato di lucidità e attenzione.
I sogni sono per loro non solo semplicemente un susseguirsi di immagini che difficilmente si ricordano, ma sono la via d’accesso al sapere ed alla guarigione, ogni esperienza vissuta in sogno vale ancor più di quelle vissute da svegli.
Nel sogno, essi non apprendono solo avvenimenti futuri, ma addirittura vengono illuminati da nuove conoscenze che poi divulgano per il bene comune.
Per affidarsi al sogno non è necessario seguire la disciplina sciamanica, basti pensare a Beethoven o a Eisntain, solo per citare alcuni tra i geni dei nostri tempi che hanno dichiarato di aver avuto delle rivelazioni in sogno.
Quando si parla di sogno, è importante ricordarsi che i sogni ad occhi aperti e quelli vissuti durante il sonno hanno il medesimo valore.

Un detto Iroquois recita:
"Niente può succedere fino a quando non è stato sognato".

Nel sogno, dunque, non solo si possono apprendere nozioni importanti, ma entrando in un diverso stato di coscienza si aprono diverse possibilità. Una tra queste è quella della guarigione.

Ciò che mi ha spinta ad avvicinarmi allo sciamanismo è questo racconto, del quale purtroppo non so indicarvi l’origine:

"Centro America, giorni nostri. Un giornalista chiede ad uno sciamano di mostrarsi in un rito di guarigione, per poterne scrivere un articolo, con lo scopo di far meglio comprendere la veridicità di alcuni riti dai sapori antichi.
Lo sciamano accetta, essendo indirizzato all’espansione della conoscenza e dell’apertura del cuore nei paesi più industrializzati.
Poco dopo si presenta l’occasione giusta. Una donna residente in un paese vicino, chiede allo sciamano di aiutare la madre in coma. La donna è stata dimessa dall’ospedale, senza speranze.
Lo sciamano inizia a meditare in silenzio davanti agli occhi vigili del giornalista e della figlia.
Ad un certo punto, inizia a raccontare il suo cammino, descrivendone i paesaggi e le presenze.
Per un certo periodo la situazione rimane stabile.
La donna rimane immobile nel letto. Lo sciamano spiega che la sta cercando per poter liberare il suo spirito. Una volta trovata, si presenta un problema, la donna non può tornare indietro perché tenuta da due presenze negative intenzionate a tenerla definitivamente nella realtà ultraterrena.
Così inizia uno scontro a livello spirituale tra il vecchio saggio e le presenze.
La voce del saggio cessa di narrare. È silenzio. Dopo pochi minuti di titubanza, il giornalista di avvicina al saggio e si rende conto che è morto. Lì, sotto i loro occhi, un “miracolo” dalla natura umana si stava compiendo.
La donna aprì gli occhi. Era salva."

All’interno dei sogni si ha la possibilità di interagire con presenze e spiriti guida che meglio potranno condurci verso la giusta interpretazione dei simboli che si incontreranno sul proprio percorso e ci terranno lontano da ciò che non potremmo capire o che potrebbe addirittura ferirci.
In questa dimensione è possibile guarire da alcune paure, paranoie, fobie e, in stadio avanzato, anche malattie fisiche evitando di prendere farmaci a volte dannosi.
Ma il processo inverso, ovvero l’essere succubi di alcuni “incubi”, in alcuni casi può portare gravi disturbi. Questo succede se non sono visti anch’essi dal giusto punto di vista; difatti, anche gl’incubi, così come i sogni, sono dei doni, doni che ci permettono di comprendere meglio le nostre paure in modo da poterle superare.
Il sogno è una tra le poche porte che ancora rimangono aperte a tutti per entrare in contatto con il Divino, sotto ogni sua forma, dunque ad ognuno di noi spetta il compito di non sottovalutarne il significato.
Alcuni consigli pratici possono essere quello di appuntare su un diario i sogni ricorrenti, i vari simboli o anche semplicemente le varie sensazioni.
Se un sogno ci disturba continuamente, immaginare quel contesto fino ad addormentarci, ma con la consapevolezza che questa volta saremo noi a comandarlo. Imparare la tecnica del sogno lucido è utile a questo scopo.
Cercare nella realtà i vari simboli trovati nei sogni per capirne il significato più profondo ed applicarlo alla vita di tutti i giorni.
Rispettarli e non sottovalutarli è cosa essenziale, con essi abbiamo la possibilità di comunicare con il nostro “io maestro” e con quella realtà che tanto cerchiamo nelle difficoltà. Essi possono darci la risposta ad ogni domanda.
Essi sono sacri, sono il nostro ponte verso la realtà che non ci è dato vedere, ma che esiste e pulsa intorno a noi. In ognuno di noi.

Prima di iniziare ad esercitarsi con i sogni lucidi o con le visualizzazioni consiglio questo piccolo esercizio, che oltre a dare sicurezza al sognante può servire anche a superare alcune paure e fobie che potrebbero incontrarsi nella vita reale.
Consiglio di fare questo esercizio in penombra, lontani da rumori che possano disturbarvi.
Rimanete seduti su una sedia comoda, ben eretti, con la pianta dei piedi appoggiata a terra e il palmo delle mani sulle ginocchia, in modo che le energie possano scorrere liberamente.
Consiglio questa posizione perché aiuta a non addormentarsi, e le prime volte è quasi naturale che succeda.
Regolarizzate il vostro respiro, ascoltatelo.
Cercate di svuotare completamente la vostra mente. Non pensate a nulla.
Per concentrarvi meglio vi consiglio di produrre con la voce un suono ripetitivo, fino a quando non vi sentirete pronti.
Quando il vostro stato di coscienza inizierà ad alterarsi, mentalmente, iniziate a visualizzare un fascio di luce bianca partire dall’universo fino ad arrivare nella vostra stanza e irradiare tutto con il suo calore. Una sensazione di pace e benessere vi attraverserà il corpo. Lasciatevi cullare dal suo tepore.
Ora siete avvolti da questa luce, un luce calda, che vi proteggerà per tutta la durata della meditazione, ed anche oltre.
Iniziate a vedere la stanza dove vi trovate, ma tenendo gli occhi chiusi. La stanza è buia come nella realtà, ma qui voi siete avvolti dalla luce bianca e dal suo calore. Quando sentirete che la visualizzazione sarà divenuta abbastanza reale potrete continuare. Prendete tutto il tempo che volete.
Nessuno può entrare in questa luce, niente e nessuno qui potrà farvi del male.
All’estremità più lontana iniziate a visualizzare la vostra peggiore paura (qualsiasi cosa, dalla solitudine, al buio, agli insetti...).
Guardatela e concentratevi affinché essa cambi forma.
Ad esempio se la vostra peggior paura sono i serpenti, immaginate prima l’immagine di molti grossi serpenti. Non abbiate paura se qualcuno si avvicina, perseverate ricordando il vostro scudo di protezione.
Poi, con la concentrazione, trasformate l’immagine dei serpenti, sforzatevi di vederli dolci, come fossero peluche.
Anche per questa operazione potete prendervi tutto il tempo che volete, e ritentare svariate volte. Non abbattetevi se non riuscirete subito a modificare l’immagine, perseverate e abbiate fiducia in voi stessi.
Se riuscirete, avrete iniziato a domare la vostra paura, forse l’avrete completamente superata ed avrete appreso l’utilizzo della tecnica del sogno lucido (o visualizzazione), molto utile per la meditazione sciamanica, ma non solo.
Quando l’immagine non vi farà più paura, ringraziate la luce che vi ha protetto e, lentamente, ognuno con il tempo di cui necessita, ritornate alla realtà ordinataria e riaprite gli occhi.
Buona fortuna e… buon viaggio.

a cura di Barbara 

Archivio GHoST (immagini) - Splatter Vol.1

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Melma e il progetto VerdeNero

Milano 25 luglio 2007 - Eraldo Baldini ha trasportato VerdeNero nel 2050, in un futuro ormai prossimo, soffocato dal surriscaldamento climatico e dal controllo delle multinazionali che cercano di ristabilire il loro potere sul mondo dopo gli attacchi ecoterroristici che hanno sconvolto l'assetto economico e sociale dell'intero pianeta. In una delle zone colpite, il Petrolchimico dell'Alto Adriatico, un gruppo di dissidenti tiene in ostaggio la figlia di uno dei più importanti membri del Dipartimento, l'organizzazione di potenti che ha in mano le sorti del globo. I rapitori non vogliono trattare con nessuno, tranne che con Padre Cattelan, proveniente da Nuova Assisi ma originario dell'Alto Adriatico. Nel giro di poche ore, il sacerdote si ritrova in un lembo di laguna dimenticato da tutti, a scegliere tra la fedeltà al compito che gli è stato assegnato e le sue convinzioni etiche, scoprendo che la realtà non è quasi mai quella che ci viene presentata.
Focalizzando l’attenzione sui gravissimi fenomeni di inquinamento causati dagli agglomerati industriali, che hanno come eclatante esempio il Petrolchimico di Marghera, Baldini costruisce un noir ambientato in desolazioni così tetre da mettere i brividi. Una sorta di lungo weekend di terrore tra lugubri paludi tossiche e impianti industriali abbandonati e avvelenati da micidiali reflui. Tra una natura impazzita e barlumi di resistenza.
Melma si presenta al pubblico come terzo volume della nuova collana di Edizioni Ambiente: VerdeNero. Storie di ecomafia. Si tratta della punta di diamante della campagna contro i crimini ambientali “VerdeNero”, nata in collaborazione con Legambiente, che sperimenterà tutti i linguaggi della comunicazione con un unico obiettivo: informare anche i “non addetti ai lavori” dei reati e degli orrori ambientali di cui siamo tutti inconsapevoli vittime.
Dal racket di animali agli ecomostri, dall’abusivismo edilizio ai rifiuti tossici. L'elenco è lungo, i casi affrontati verissimi, documentati, diabolici: hanno accettato di tradurli in chiave narrativa  alcuni fra i nomi più autorevoli del panorama letterario italiano, come Carlo Lucarelli, Eraldo Baldini, Massimo Carlotto, Piero Colaprico, Marcello Fois, Sandrone Dazieri, Giancarlo De Cataldo, Niccolò Ammaniti, Giacomo Cacciatore, Valentina Gebbia, Gery Palazzotto, Simona Vinci, WuMing.
  
Melma nei dettagli
I FATTI – Raccontare gli orrori del petrolchimico italiano con le armi del genere, è il viaggio che decide di intraprendere Baldini per VerdeNero. Melma è la metafora di un paese che cerca di nascondere i suoi fantasmi abbandonandoli per strada, tra lugubri paludi tossiche, porti alla deriva di vecchi reflui industriali, lasciandoli addormentati nel cuore di desolazioni così silenziose da mettere i brividi a chiunque si avvicini.
  
IL PRETESTO LETTERARIO - Anno 2050, Italia. Da molto tempo ormai sono cessati gli attentati di stampo ecoterrorista che avevano sconvolto il pianeta in segno di disperata rivolta contro una situazione ambientale fattasi via via più insopportabile.
Il progetto di recupero dei siti compromessi ideato da una potente organizzazione internazionale, “il Dipartimento”, sta per essere avviato quando la figlia del capo di quell’ente viene rapita e, si ipotizza, tenuta prigioniera nell’Area 1, quella del Petrolchimico dell’Alto Adriatico, ora distrutto e abitato solo da una umanità reietta, marginale, apparentemente rassegnata.
Toccherà a Padre Nelson Cattelan, scelto come intermediario, recarsi in quel luogo difficile in cui la natura si sta riappropriando delle rovine: una natura degenerata, mutante, ostile, anche a causa del “grande caldo” che sta sempre più attanagliando il pianeta.
Una discesa agli inferi, un viaggio allucinante in un mondo sconvolto dai disastri causati in vari modi dall’uomo, dentro una melma di intrighi e di colpe, di dolore e di lotte, alla scoperta di segreti sconvolgenti. Un viaggio, allo stesso tempo, che potrebbe condurre alla speranza.
  
PERCHE' VERDENERO - “Abbiamo mangiato il frutto proibito, ne stiamo pagando le conseguenze e sempre più le pagheremo care. Nonostante il ‘divieto’ che avrebbero dovuto imporre la ragione, il buon senso, la rettitudine, la lungimiranza, ci siamo accaniti sul nostro povero pianeta sfruttandolo e avvelenandolo, in un insensato baccanale suicida, in una danza macabra e avida condotta da predoni senza scrupoli pronti a sacrificare un bene di tutti per il proprio tornaconto. Forse è tardi per fermarsi, per rimediare, per salvarsi. È tardi, ma qualcosa ancora si può e si deve fare, se vogliamo che ci sia la possibilità di un futuro.
Io sono un narratore e il mio modestissimo contributo lo posso dare scrivendo, con la speranza che il mio messaggio arrivi a qualcuno e lasci un piccolo segno.” Eraldo Baldini

Tutti gli autori di verdenero rinunciano al 2% di royalties, destinandole in favore della campagna SalvaItalia di Legambiente
  
ERALDO BALDINI è nato e vive a Ravenna. È scrittore, saggista e sceneggiatore. Dopo essersi specializzato in Antropologia Culturale ha pubblicato numerosi saggi sulle culture tradizionali e sul folklore. Contemporaneamente si è dedicato alla narrativa, soprattutto nel campo della letteratura noir, gialla e del mistero.
Nel 1991 ha vinto il Premio Mystfest di Cattolica. In campo narrativo ha pubblicato tra le altre cose Mal’aria (Frassinelli, 1998); Faccia di sale (Frassinelli, 1999); Gotico rurale (Frassinelli, 2000); Tre mani nel buio (Sperling & Kupfer, 2001); Terra di nessuno (Frassinelli, 2001); Bambine (Sperling & Kupfer, 2002); Medical thriller (Einaudi, 2002) insieme a Carlo Lucarelli e a Giampiero Rigosi; Bambini, ragni e altri predatori (Einaudi, 2003); Nebbia e cenere (Einaudi, 2004); Come il lupo (Einaudi, 2006). Ha scritto anche un romanzo per ragazzi (L’estate strana, EL, 1997) e uno per bambini (Le porte del tempo, Walt Disney, 2001). Suoi racconti compaiono in diverse antologie di noir, di giallo e di mistero.
Le sue opere sono tradotte all’estero da importanti editori. Il suo sito internet è: www.eraldobaldini.it
  
Scheda del libro
Titolo: Melma
Autore: Eraldo Baldini
Formato:  12 x 16,8 - 176 pagine
Collana: VerdeNero
Editore: Edizioni Ambiente
Prezzo di copertina: 10,00 Euro
Il sito VerdeNero: www.verdenero.it

Gli scrittori dell'orrore

Sono conosciuti come gli scrittori dell’orrore gli autori che trattano temi di soprannaturale, spiritismo, vampirismo, magia, occultismo, macabro, gotico, mistero, insolito…
Poe e Lovecraft sono i più  conosciuti, ma ci sono  moltissimi altri autori (alcuni dei quali sconfinano in generi diversi) e sarebbe impossibile elencarli tutti. Spesso gli autori meno conosciuti sono più importanti di quelli famosi perché la diffusione di un’opera dipende da motivi casuali e non dal suo valore intrinseco. I giudizi sulle opere sono  discordi poiché naturalmente i gusti sono differenti. Altre volte le opere sono state giudicate da critici incompetenti o addirittura avversi a questo genere. Gli scrittori più bravi sono esperti in scienze psichiche e i loro racconti sono in linea con le scoperte dello spiritismo. Nelle loro opere incontriamo poltergeist, apparizioni, infestazioni, ecc. Altre volte lo scrittore propone nella sua opera filosofie nuove, ipotesi originali che tentano di spiegare i grandi misteri dell’esistenza e dell’universo.
Ma la letteratura dell’orrore è prima di tutto una letteratura dove l’atmosfera è la cosa più importante. L’atmosfera viene ricavata dalla descrizione di ambienti insoliti e bizzarri pieni di fascino e di mistero: vecchie case, castelli in rovina, campagne autunnali, boschi, paludi…

Gli scrittori dell’orrore è un progetto che nasce da minuziose ricerche durate oltre quarant’anni; con questo libro scoprirete tra le altre cose tutti i segreti che si nascondevano nella mitica serie de I racconti di Dracula, collana horror immortalata nel lontano 1959 dalla ormai defunta editrice ERP di Roma. Scoprirete grandi scrittori (tutti rigorosamente italiani!!) come Max Dave, Morton Sidney, Dough Steiner, Red Schneider, Frank Graegorius, Paul Carter... Verrete a conoscenza delle più belle trame ghost-story scritte in quegli anni e rimarrete stupefatti delle innumerevoli curiosità raccolte dalle testimonianze di questi autori.
In sostanza una guida utile e fondamentale che mancava da tempo nel panorama editoriale italiano di genere arricchita da una collezione di oltre 80 fotografie e di una sezione extra on-line che i lettori potranno accedervi gratuitamente. Un’opera che omaggia doverosamente straordinari autori che hanno lasciato un segno indelebile nella letteratura horror italiana.

Sergio Bissoli e GLI SCRITTORI DELL’ORRORE
Ho cominciato a leggere i Racconti del Terrore Sansoni Editore, nell’Agosto del 1962 in vacanza a Sottomarina. Avevo 15 anni. In ottobre ho sognato che possedevo molti Racconti di Dracula. Allora ho incominciato a comprarli e collezionarli, ma in quegli anni erano proibiti. (Esisteva l’Index Librorum Prohibitorum affisso nelle chiese). Così nascondevo il pacco dei libri avvolti nel nylon, nella cuspide triangolare di un cimitero in costruzione; poi dentro i condotti per il vapore di un essiccatoio abbandonato; sulla soffitta di una vecchia torre; e dentro un tombino. D’inverno leggevo i libri dentro le case abbandonate. D’estate li leggevo in campagna. Il resto della storia è scritto nel libro che avete fra le mani.

Scheda tecnica
Titolo: Gli scrittori dell'orrorre
Autore: Sergio Bissoli
Editore: Ferrara Edizioni
Codice ISBN: 978-88-95105-04-8
Dimensioni: 13,8 x 19,6 - 150 pagine
Copertina: James Garofalo
Anno: Dicembre 2007 (Prima Edizione)
Divieti: Opera per tutti

Profondo Rock

La recensione tratta dal libro con, in calce alla stessa, un mio pensiero sul musicista 
Profondo Rock è un viaggio nel mondo di uno dei più importanti compositori del nostro tempo: il Maestro Claudio Simonetti.
Autore di spico nel campo delle colonne sonore, è entrato di diritto nella storia del cinema grazie alle musiche ideate per i film di Dario Argento (il cult Profondo rosso, il cui tema musicale è l'emblema stesso degli horror-movies, ma anche Suspiria, Tenebre, Phenomena, Opera, Non ho sonno, Il cartaio, Jenifer, Pelts fino a La terza madre).
Il nome di Simonetti è strettamente legato alle pellicole dell'orrore, le sue partiture hanno avuto un peso importante nella realizzazione di film che sono riusciti a segnare l'immaginario del grande pubblico come Zombie di George A. Romero, Demoni di Lamberto Bava o Inferno in diretta di Ruggero Deodato.
L'autrice ha incontrato oltre trenta collaboratori o amici del Maestro - dai membri dello storico gruppo Goblin a Dario Argento, dalla cantante Vivien Vee al complesso Daemonia, passando per le dichiarazioni esclusive che hanno rilasciato registi del calibro di Ruggero Deodato ed Enzo G. Castellari, proprio per questo volume - oltre ad aver effettuato accurate ricerche per fare luce su quella che è stata la produzione extra-cinematografica di Simonetti (direttore d'orchestra in programmi televisivi, pioniere della disco-music italiana nelle vesti di produttore del gruppo Easy Going).
Oltre l'icona, oltre il musicista Profondo Rock cerca di delineare il profilo di un grande artista, un uomo che è riuscito a far tremare mezzo mondo con poche fantastiche note.
Io ho avuto il piacere, la fortuna e l'onore di conoscere l'artista in discorso nell'ottobre del 2004, in occasione dell'evento "Rimusicazione Live di film d'epoca: Claudio Simonetti in concert with Nosferatu", presso la prestigiosa sede dell'Accademia Europea a Bolzano e vorrei permettermi di dire che mi sono trovato di fronte ad un grandissimo professionista, uno che si è fatto il mazzo (lasciatemi passare il termine), nonché uomo dalla grande purezza morale, in gergo calcistico, un campione dentro e fuori dal campo, a testimonianza che senza sani principi e qualità che ho appena enunciato non avrebbe avuto una carriera di successi più che trentennale.
Volevo ringraziare pubblicamente un'altra grande professionista, l'autrice Gabrielle Lucantonio.
Grazie di tutto.

BIOGRAFIA/BIOGRAPHY Gabrielle Lucantonio è nata ad Argenteul (Francia).
Laureata in Lettere Moderne a Parigi-Nanterre, è critico cinematografico e musicale. E' la corrispondente in Italia della rivista francese "L'Ecran fantastique", collabora a diverse testate italiane e non. Ha una rubrica mensile intitolata "Ennio & Co" su "Alias", il supplemento del "Manifesto" e ha fatto parte della redazione di "Cinéfonia magazine" che trattava unicamente di colonne sonore. E' stata collaboratrice di Francis Vanoye per Profession reporter de Michelangelo Antonioni (Parigi 1993) e di Antoine de Baecque per la Petite anthologie del Cahiers du cinémain nove volumi (Parigi 2001). Ha curato La Politique des auteurs (Roma, 1999), il libro-interviste Il cinema horror in Italia (Roma, 2001) e i volumi su Lars von Trier (Roma, 1998), Dario Argento(2001). Ha collaborato al libro collettivo L'eccesso
della visione - Il cinema di Dario Argento (Torino, 2003). Cura dei DVD per la Rarovideo/Minerva (von Trier, Godard, Chabrol, Vadim, Schroeder...). Ha collaborato con il Festival del Nuovo Cinema di Pesaro e Sulmonacinema.

La biografia è stata tratta dal libro Profondo Rock - Claudio Simonetti tra cinema e musica - da Profondo rosso a La terza madre (Coniglio Editore).

a cura di Demetrio Cutrupi

Io non dormo da sola

“Io non dormo da sola”  di  Catherine Townsend
Pubblicato da Einaudi - Stile libero, questo "reportage da sotto le lenzuola" è una lettura briosamente edificante per chi crede che i piaceri vadano vissuti come tali e, soprattutto, per chi questa verità ancora non l'ha capita.
Donne, immaginate Catherine Townsend come quell'amica che ha fatto esperienze di ogni tipo e che, quando ve le racconta, guardate con un materno sguardo di benevolo rimprovero, fondamentalmente perché la invidiate per aver avuto il coraggio di fare molte delle cose che voi osate solo desiderare. Uomini, immaginate Catherine come l'amica che vorreste tanto avere perché (oltre ad essere eventualmente disponibile a venire a letto con voi) capisce molte delle vostre esigenze e sa aiutarvi a capire le sue e quelle delle altre donne. Già il sottotitolo di “Io non dormo da sola” (“Reportage da sotto le lenzuola”) preannuncia l'intento di condividere con i lettori una sfera intima dell'esistenza, ma ciò che si può scoprire solo avanzando con la lettura è che chi narra non lo fa dall'alto di un piedistallo dal quale impartire lezioni di erotismo: al contrario, chi parla è una persona che vuole rendere il “pubblico” complice delle sue vicende. A primo impatto è abbastanza naturale aspettarsi l'ennesimo romanzo in stile erotico spinto, dominato da una sensualità esplicita e scontata. Ma mai impressione può essere così sbagliata: le vicende di Catherine sono un pianeta vario in cui accanto al sesso c'è posto per i sentimenti, che sia amore, amicizia, speranza, solitudine o delusione. E, soprattutto, c'è posto per l'ironia, vero punto di forza di questo brioso romanzo. Quell'ironia che permette all'autrice di affrontare il sesso con stile schietto ed animo spensierato, riportandolo alla sua dimensione di evento naturale della vita di ogni essere umano. Azzerati tutti i tabù ed i pregiudizi, anche i passaggi più “spinti” perdono così ogni venatura di volgarità. In un'epoca in cui c'è poco di che sorridere, “Io non dormo da sola”, con la sua carica di vitalità, è sicuramente un libro che val la pena di leggere. Ed è anche un'ottima guida “spirituale” per le donne intorno ai trenta, che vivono quella che non è azzardato definire “età del sesso” in cui si ha ormai raggiunto la piena consapevolezza del proprio corpo e delle proprie esigenze, ma il desiderio sessuale non deve ancora fare veramente i conti con l'inarrestabile processo di decadimento del fisico o con i disagi della menopausa.

a cura di Arcel Nis